Saro Urzì
Il 24 febbraio di
cento anni addietro nasceva il grande attore siciliano Saro Urzì. Dopo aver
lasciato la Sicilia, negli anni Trenta e Quaranta, vivacchiò lavorando nel
cinema come comparsa e controfigura (fu anche acrobata) e come attore si
secondo piano, segnalandosi però per la sua caratterizzazione sanguigna dell'isolano
verace e sopra le righe che lasciava pur tuttavia intuire una forte carica di umanità.
Di questo periodo, ricordo soltanto Campo de' fiori (1943) di Mario Bonnard, La freccia nel fianco (1944) di Alberto Lattuada ed Emigrantes (1948) di Aldo Fabrizi.
Fu così che Saro Urzì fu notato dal grandissimo Pietro Germi
(1914–1974), regista genovese «attento alla realtà dei sentimenti e
all'ambiente sociale» (in Pietro Germi,
ne “Il Cinema – Grande storia illustrata”, vol. iv°,
Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). Nel 1948 Germi scelse Urzì (e lo
scelse una volta per tutte) e insieme affrontarono il tema scottante del
latifondo e della mafia in Sicilia nel suo capolavoro romantico e appena un po'
retorico ma ricco di forza morale, In
nome della legge (1949), «anticipatore del cinema civile degli anni
Sessanta» e, secondo Mario Sesti (in Tutto il cinema di Pietro Germi,
Baldini&Castoldi, Milano 2007), ispirato a “Sfida infernale” del 1946,
film diretto da John Ford con Henry Fonda e Victor Mature. Urzì v'interpretava
il maresciallo Grifò. Il film, girato a Sciacca, era stato tratto dal romanzo Piccola pretura del magistrato Giuseppe
Guido Lo Schiavo, che – a dire
di Leonardo Sciascia (ne La Sicilia nel
cinema, in “La corda pazza”, Einaudi, Torino 1982) – accreditava però la falsa immagine di una mafia ancora guidata
da un profondo senso di giustizia. Il film era interpretato da Massimo Girotti
(Guido Schiavi), Jone Salinas (baronessa Teresa Lo Vasto), Camillo Mastrocinque
(barone Lo Vasto), Charles Vanel (Turi Passalacqua), e altri due grandi
caratteristi siciliani che diedero manforte a Urzì: Turi Pandolfini (don Fifì)
e Umberto Spadaro (avvocato Faraglia). Il film – vigoroso nella rappresentazione ambientale, dal ritmo teso e
nervoso, virile e asciutto nel racconto –
vinse tre Nastri d'argento (per Girotti e Urzì, e uno speciale per il
regista). Raccontava di un giovane pretore mandato in un paesino siciliano dell'entroterra
e costretto a misurarsi con l'ingiustizia sociale (rappresentata
emblematicamente da un nobile latifondista) e con la mafia (rappresentata da un
potente campiere–massaro a
cavallo) in una comunità misera e in una terra infelice e omertosa. Urzì si
trovò a interpretare l'unica figura veramente positiva del film: il maresciallo
della locale Stazione Carabinieri, che appoggerà l'inesperto pretore,
riconoscendo il valore morale della sua lotta per la legalità e la dignità
umana. E il pretore alla fine sembra soccombere: ha già presentato le sue
dimissioni, ma l'assassinio del giovane amico Paolino (Bernardo Indelicato) lo spingerà
a ritirarle e a rimanere “a difesa del fortino”.
Da quel film nacque una intensa collaborazione artistica e
una solida amicizia tra quel regista «ruvido e schivo, introverso e quasi
scontroso» e quel siciliano vivace e ridanciano, tanto che Urzì fu presente in
molti altri film girati da Germi, in quel cinema di “eroi umili” che
privilegiava la sincerità degli affetti e la commozione nata dall'onestà, ritagliandosi
ruoli minori ma coloriti e di fondamentale importanza. Lo ricordiamo ne Il cammino della speranza (1950) – è un losco individuo che aiuta a emigrare
clandestinamente in Francia alcuni poveracci di un piccolo paese siciliano in
una sofferta odissea sostenuta dalla speranza in un avvenire migliore – , Il brigante di Tacca del Lupo (1952) – è il commissario Siceli, un ambiguo ex funzionario della
polizia borbonica – , Il ferroviere (1956) – è l'amico fedele, solidale e
simpatico, del protagonista interpretato mirabilmente dallo stesso Germi – , Un maledetto imbroglio (1958) – adattato dal romanzo di Carlo Emilio Gadda Quel pasticciaccio
brutto di via Merulana – , e L'uomo
di paglia (1958), dedicato alla crisi esistenziale di un uomo di mezza età.
Ma Urzì seguì Germi anche nella sua svolta verso le «grottesche
satire di costume» con il suo ruolo da protagonista di don Vincenzo Ascalone, il
padre siciliano collerico e autoritario, nell'impietoso e corrosivo film di
Germi Sedotta e abbandonata (1964), vero
capolavoro della “commedia all'italiana”, successivo a “Divorzio all'italiana”
(1963): «Ecco, dunque, una Sicilia, già vista nei suoi aspetti più aspri e
drammatici in “In nome della legge” e nel “Cammino della speranza”, che offre
stavolta lo spunto e l'ambiente a uno straordinario pezzo grottesco che, al di
là degli estri comici e paradossali […], assume anche una notevole importanza
civile.» (Pietro Germi, ne “Il Cinema
– Grande storia illustrata”, vol. iv°,
Ist. Geografico De Agostini, Novara 1981). E “Sedotta e abbandonata” in «una deformazione
comica della realtà» è «ancora ambientato in Sicilia, e ancora sulla corda del
grottesco che investiva con l'arma della satira (ma un po' spuntata) la
sopravvivenza anacronistica e inaccettabile di un altro barbaro articolo del
Codice concernente l'assoluzione di una violenza sessuale in presenza di un
matrimonio riparatore, la riflessione amara, ma anche la rivolta suscitata nel
pubblico verso certe ataviche superstizioni e certi odiosi tabù, […]» (Pietro Germi, ne “Il Cinema – Grande
storia illustrata”, vol. iv°, Ist.
Geografico De Agostini, Novara 1981). Interpretato da Stefania Sandrelli (nel
ruolo di Agnese Ascalone), con un contorno di eccezionali caratterizzazioni:
Aldo Puglisi (Peppino Califano), Lando Buzzanca (Antonio Ascalone), Lola
Braccini (Amalia Califano), Leopoldo Trieste (barone Rizieri), Umberto Spadaro
(cugino di Ascalone) e Rocco D'Assunta (Orlando Califano), il film fu presentato
al 17º Festival di Cannes e meritò a Saro Urzì il premio per la migliore
interpretazione maschile. Ed effettivamente Urzì seppe dare caliente esuberanza
ed egoismo al senso d'onore del patriarca prepotente e manesco, schiantato da
quella che considera una grave colpa della figlia e dal brutale colpo inferto al
suo ruolo di custode intransigente dell'onore familiare. Da lì tutta una serie
di mosse – una più sbagliata
dell'altra – per
coprire, aggiustare e avvalorare tesi edulcorate e folli, e di furiosi
contrasti familiari per realizzare delle nozze riparatrici, fino all'esito grottesco
del “pater familias” che si sacrifica, morendo di nascosto nella sua stanza, per
evitare che il matrimonio sia rimandato (sulla sua tomba sarà marchiato a fuoco
l'epitaffio “Onore e famiglia”). La sua interpretazione fu veramente grandiosa,
simbolo ed emblema di una cupa, feroce e caricaturale sicilianità, schiava di mille
arcaiche convenzioni e di cento ipocrisie sociali (solo le apparenze contano, e
a esse si devono immolare tutto e tutti); per essa, Urzì ricevette un secondo
Nastro d'Argento nel 1965. Fu nuovamente con Germi in Serafino (1968), dalle ambizioni bucolico–ecologiche, e Alfredo,
Alfredo (1972), abile commedia molto spassosa.
Negli anni Sessanta e Settanta, continuarono le sue
caratterizzazioni anche in film di noti registi internazionali. Partecipò a
cinque film della saga di Don Camillo e Peppone, a fianco di Fernandel e Gino
Cervi, interpretando il personaggio del Brusco: Don Camillo (1952) e Il
ritorno di Don Camillo (1953) di Julien Duvivier, Don Camillo e l'onorevole Peppone (1955) e Don Camillo monsignore ma non troppo (1961) di Carmine Gallone, e Il compagno Don Camillo (1965) di Luigi
Comencini.
Urzì comparve, inoltre, ne Il tesoro dell'Africa (Beat the Devil) (1953) di John Huston e nel
film Il padrino (The Godfather)
(1972) di Francis Ford Coppola (tratto dall'omonimo romanzo di Mario Puzo) – era il signor Vitelli – , e non disdegnò la parodia Il figlioccio del Padrino (1973) di
Mariano Laurenti accanto a Franco Franchi. Girò i suoi ultimi film nel 1976: Occhio alla vedova! di Sergio Pastore e
Giovannino di Paolo Nuzzi.
Saro Urzì fu presente anche in diversi programmi televisivi;
degne di nota le sue partecipazioni a Johnny
Belinda (1968) di Piero Schivazappa e a un episodio dell'adattamento
televisivo de Il padrino di Coppola
(1977).
Giulio Berruti, in Saro
Urzì – Luce e Colore del 9
dicembre 2010, scrive: «Saro Urzì appartiene a quella categoria di valenti
professionisti che senza una ragione apparente restano relegati in ruoli di secondo
piano anche nell'attenzione degli spettatori, e non riescono ad uscire da quel
ruolo nemmeno quando registi di grande talento – come Pietro Germi – decidono
di “investire” sulla loro bravura scegliendoli – e non una volta sola –
per ruoli importanti in film di grande
successo.» (http://cortoin.screenweek.it/archivio/cronologico/2010/12/saro-urzi.php).
Su La Sicilia di qualche giorno addietro è uscito un
articolo commemorativo per il centenario della sua nascita di Lorenzo Catania,
dal titolo Saro Urzì, volto dei film di
Germi – Cento anni fa nasceva l’attore “prima catanese, poi siciliano, poi
italiano, se rimane qualcosa”; scrive Catania: «Prima di essere sottratto
dal regista Pietro Germi al sottobosco del mondo dei cinematografari, per dare
man forte all’intransigenza etico–civile del giovane pretore Guido
Schiavi che si oppone all’autorità mafiosa di massaro Turi
Passalacqua e all’indifferenza e all’omertà dell’ambiente dove è stato
comandato di servizio, la carriera di Urzì aveva sperimentato un'estenuante
gavetta. […] Insieme alla retìna, ai baffetti e al risucchio dentale del
pirandelliano barone Fefè Cefalù di “Divorzio all’italiana”, il corpo grasso e sudaticcio di Saro Urzì–Vincenzo Ascalone, chiuso nel bianco
e nero degli abiti, il suo sguardo ora allucinato ora disperato o ebete, i suoi
gesti e i suoi comportamenti tribali caratteristici di un antico padre–padrone che a suon di sberle e di sotterfugi
cerca di difendere l'onore della famiglia, compromesso da una figlia incinta
senza essere sposata, lungi dallo scadere nel divertimento qualunquista e nella
critica cinica e antimeridionale, hanno costretto i siciliani e tutti gli
italiani a guardare dentro se stessi per conoscersi meglio e cambiare la
propria mentalità.».
Gianni Canova ha scritto: «Caratterista vulcanico e
debordante, lega strettamente il suo nome alla Sicilia e a quello del regista
P. Germi […]» (Cinema, le garzantine,
Garzanti 2009).
Saro Urzì morì a San Giuseppe Vesuviano il 1º novembre del
1979 (aveva 66 anni). Concludendo, mi sento di poter affermare che Pietro
Germi, Saro Urzì e la Sicilia in diversi suoi aspetti costituirono un
insuperabile tutt'uno, rimasto unico e irripetibile nel cinema italiano.
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