Saffo
Poetessa
dell’amore, Saffo nacque a Lesbo in Grecia probabilmente nel 640 a.C. circa, ma
esistono dati contrastanti sull’esatto periodo storico in cui si svolse la sua
vita. Fu definita da Platone (Atene, 426-347 a.C.) la «decima
Musa» e «un miracolo»
dallo storico–geografo greco Strabone (63 a.C.-20 d.C.) che
molto ci ha fatto conoscere del mondo antico.
I suoi versi
sono straordinariamente musicali: non per nulla, la poesia di Saffo era
destinata ad accompagnarsi alla danza e al suono della lira o della cetra o di
altri strumenti a corda, a recitarsi durante le feste o i fidanzamenti o i
matrimoni, oppure come preghiera a Venere, la dea protettrice. Saffo ha disegnato
i misteri e i riti di un’era
perduta, ha cantato in maniera splendida l’amore morboso (privo di misura o di freni)
e ha espresso il nucleo profondo del suo essere femminile in modo tanto
completo e irriducibile che nelle sue poesie l’uomo non esiste in nessuna forma
e in nessun aspetto, o è al massimo portatore di sofferenza e tradimento.
Ricordo
alcune tra le sue più belle poesie (da Saffo ne “I MITI – Poesia”,
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1996). Nella Poesia 1, così scriveva:
Afrodite immortale, che siedi
sopra il tono intarsiato,
figlia di Zeus, tessitrice
d’inganni,
ti supplico: non domare il mio
cuore
con ansie e con tormenti, o divina,
ma vienimi accanto, come una volta
quando, udito il mio grido da
lontano,
mi hai ascoltata: giungesti
lasciando la casa d’oro del padre,
dopo aver aggiogato il tuo carro.
Sopra la terra bruna ti conducevano
i passeri:
belli, veloci, battevano rapidi le
ali
nell’abisso del cielo.
In un attimo, furono qui! E tu,
beata,
sorridendo nel volto immortale
hai chiesto perché ancora soffrivo
e perché ancora chiamavo
e che cosa voleva sopra ogni cosa
il mio
cuore folle. «E chi ancora devo convincere
ad accettare il tuo amore?
Saffo, chi ti fa torto?
Se ora fugge presto inseguirà
e se respinge i tuoi doni poi ne offrirà
e se non ama presto ti amerà
pur se non vuole.»
Vieni ancora, liberami dal penoso tormento,
e quello che il mio cuore desidera,
còmpilo: sii mia alleata!
Nella nota
poesia Poesia 12, piena di gelosia, Saffo così si lamentava:
Mi pare simile a un dio
l’uomo che ti siede davanti
e ti ascolta così da vicino, mentre
parli
con lieve sussurro e ridi amabile:
questo mi stringe il cuore nel
petto!
Basta che ti getti uno sguardo
e subito la voce mi manca
la lingua si spezza, subito
un fuoco sottile mi corre
sotto la pelle,
lo sguardo s’offusca, rombano le
orecchie,
un freddo sudore mi cola, tutta
mi scuote un tremito,
e più verde dell’erba divento
e poco manca che muoia.
Ma bisogna che tutto sopporti…
Nella Poesia 21, costituita da soli tre versi, la poetessa con
straordinaria forza espressiva scriveva: «Eros ha scosso la mia mente / come vento che giù dal monte / si
abbatte sulle querce»;
l’amore appare come una forza più devastante della natura, alla quale non è
possibile opporsi. E la viscerale poetessa minaccia vendetta tremenda per i
traditori dell’amore: «L’uomo che mi biasima / lo travolgano i venti e
le sciagure.» (p. 15). E altri versi sono di un vigore impareggiabile: «Tu
mi cuoci.» (p. 16), oppure: «… il loro cuore divenne di gelo / si
chiusero le ali.» (p. 18), o ancora: «Sei giunta, ti bramavo / hai dato
ristoro alla mia anima / bruciante di desiderio.» (p. 22).
In Donna,
mistero senza fine bello, passando in rassegna la poesia femminile
dell’occidente dalla Grecia classica alle soglie del xx secolo, il poeta–traduttore
romano Silvio Raffo (Newton Compton Editori, Roma, 1994) prende in
considerazione Saffo, della quale così scrive: «In una società prettamente
maschilista come quella greca, Saffo risultò senz’altro figura trasgressiva,
difficile da accettare, troppo forte il suo temperamento e troppo palese la sua
superiorità, di maestra e d’artista, rispetto alla norma; troppo in contrasto
insomma coi costumi del tempo (siamo ancora nella Grecia arcaica, in cui la
vita sociale era dominata da schemi e principi piuttosto rigidi e decisamente
conservatori) […] L’opera di Saffo, di eccezionale vigore e intensità
espressiva, è il primo grande esempio di poesia individualistica, soggettiva,
in cui l’io si impone come protagonista e, senza falsi pudori, opera scelte,
afferma le proprie esigenze, i propri desideri e sogni indipendentemente da
tradizioni o conformismi. […] il tono e la qualità delle immagini, l’ardore
“mitico” della passionalità e la perizia tecnica raggiungono esiti di tale
possanza da superare qualsiasi voce maschile di quei tempi. […] Il dialetto è
quello eolico, il metro vario, ma la strofa che ricorre più frequentemente, e
che appunto si chiama “strofe saffica”, presenta uno schema fisso, di tre versi
endecasillabi e un quinario.».
L’acme
della creazione artistica di Saffo si ebbe in Mitilene, ove conduceva
un’esistenza molto diversa da quella che si svolgeva in Atene. Saffo vi creò un
Tiaso, una sorta di confraternita religiosa e di sodalizio pedagogico – quasi una scuola d’iniziazione – nella quale la poetessa (appartenente
all’aristocrazia di Lesbo) viveva circondata da un gruppo di giovani e nobili
ragazze, dedite alla musica, alla danza, alla poesia e al culto delle Muse e di
Afrodite. Le fanciulle lasciavano il sodalizio soltanto al momento del
matrimonio o – in
alcuni casi molto tristi per Saffo – per passare dal suo a un Tiaso rivale. Tra Saffo e le giovani donne esisteva
un amore vivo e ardente, per nulla platonico – da ciò è nato il termine di “amore saffico” o “amore
lesbico” per indicare il rapporto omosessuale
femminile – e il
difficile equilibrio della vita di relazione e le gelosie aspre del Tiaso ci
sono note, così come ci sono noti i nomi e le caratteristiche di alcune delle
ragazze ospiti:
– Anattoria: «Dicono che sopra la
terra nera / la cosa più bella sia una fila di cavalieri, / o di opliti, o di
navi. / Io dico invece quello che s’ama. / […] / Così ora mi torna alla mente /
Anattoria lontana.» (p. 6);
– Gongila: «… vola di nuovo il
desiderio / accanto a Gongila bella. / […]» (p. 8);
– Attis: «Ti amai un tempo, Attis
/ … / mi parevi una bambina piccola e sgraziata.» (p. 23) e «[…] / Si
aggira inquieta, ricorda, / e il desiderio della tenera Attis / le consuma
l’anima lieve / […]» (p. 39), ed ancora: «[…] / Attis, ora rifiuti / di
pensare a me / e voli via, da Andromeda.» (p. 61);
– Dica: «E tu, Dica, avvolgi
attorno alle chiome / amabili ghirlande d’aneto (erba simile al finocchio),
intrecciandole / con le tue piccole dita: sono fiori belli! / […]» (p. 33).
Saffo
cita molte altre ragazze ancora: «E Mnasidica è più bella di Girinno.» (p.
34), e «Care amiche erano Niobe e Latona.» (p. 69).
Della
vita di Saffo si sa poco: è certo che fosse la figlia di Scamandro e di Cleide
e che avesse tre fratelli. Si pensa che abbia raggiunto il massimo della sua fama
nel periodo tra il 612 e il 598 a.C., e che per motivi politici fosse stata
costretta per un certo periodo a riparare in esilio in Sicilia. Intorno al 595
a.C. sposò Cerchila ed ebbe una figlia che chiamò Cleide (come la madre) e alla
quale dedicò alcuni versi: «Ho una bella bambina, / bella come
fiorellini d’oro: / Cleide amata. / Non la scambierei per tutta la Lidia / né
per l’amabile [Sardi]…» (p. 62). Saffo fu quindi anche sposa felice e
madre affettuosa, nonostante la sua predilezione per gli amori femminili.
Su di
lei si sbizzarrirono i comici e i narratori di leggende: circolarono voci di
una sua tremenda bruttezza; in effetti, in una breve poesia, scrisse della
bellezza: «Chi è bello, è bello solo da vedere; / chi è valente, parrà
subito anche bello.» (p. 24). Non sono note la data della morte – ma avrebbe raggiunto la tarda età – e le circostanze della morte, anche
se si parlò molto del suo suicidio provocato dall’amore non corrisposto per
il barcaiolo Faone e attuato con un tuffo fatale dalla rupe dell’isola di
Leucade (Lefkada, vicino la spiaggia di Porto Katsiki). A
questo proposito, nel testo già citato, Silvio Raffo ha scritto: «Contro
l’“outsider” Saffo furono soprattutto i commediografi attici a lanciare strali
velenosi, tramandandoci il modello, o meglio la caricatura di una Saffo brutta
e deforme, cosa che non corrispondeva al vero (il suo contemporaneo Alceo di
Metilene ce la descrive leggiadramente “dolce, coronata di viole”).».
Saffo scrisse moltissimo: inni,
poesie d’amore, canti di nozze e poemetti lirici, che ci sono stati tramandati
in circa 9–10 libri ordinati
secondo criteri metrici che costituivano una sorta di diario lirico–sentimentale della memoria, ricco di
amore delirante e di malinconia, di febbre e di desiderio, di gelosie, di
ricerca dell’oblio e di sofferenze sentimentali a non finire. Non ci sono
rimasti, purtroppo, che una intera ode e dei frammenti poetici gravemente
mutilati, giunti a noi sia direttamente attraverso papiri o pergamene egiziane,
sia indirettamente attraverso i testi degli studiosi antichi di poesia e
metrica. I suoi versi sono densi di sensibilità, eleganza e raffinatezza, così
come sensibile, elegante e raffinata era l’autrice. Con indubbia modernità,
Saffo sosteneva che «la
cosa più bella è quella che si ama» e che ciascuno ha il diritto di stabilire individualmente ciò che
è bello e degno di essere amato: la bellezza e l’amore furono i suoi fari
d’ispirazione, i due poli fondanti della sua poesia. Soffrì molto a causa del
fratello Carasso, un commerciante di vino in Egitto, preda di un amore indecente
per la cortigiana Dorica che riuscì a spogliarlo di tutto il suo patrimonio e a
renderlo indegno del ruolo di aristocratico assegnatogli dal destino. Per lui,
la sorella scrisse una lirica piena di malinconico rammarico (pervenutaci
incompleta): «Cipride e Nereidi, fate che il fratello / mi torni qui
senza danno, e quanto / il suo cuore desidera, fate / che avvenga! / E fate che
siano cancellati / gli errori di un tempo e diventi / una gioia ai suoi cari,
una sciagura / per i nemici, / …e voglia rendere onore alla sorella, e l’odioso
dolore…» (p. 3).
Negli epitalami,
componimenti d’occasione, Saffo dedicò numerosi versi agli sposi e alle loro
nozze: ne dedicò uno anche a Ettore e Andromaca («dagli occhi vivaci,
tenera») che «… erano
simili a dèi!..» (p. 19).
Sono noti anche due suoi versi dedicati alla verginità, che così è invocata: «Verginità, verginità, mi lasci, e dove
vai?»; e lei risponde:
«Non più tornerò da
te, non più tornerò.» (p.
52).
Saffo fu
amata da Catullo che tradusse i versi dell’ode “Un dio mi sembra l’uomo che seduto…” e che sentì la sua poetica affine
a quella della poetessa greca; ebbe grande fortuna nel Medio Evo; e fu
prediletta da Ugo Foscolo (1778-1827) che s’ispirò a lei per alcuni suoi carmi.
Ma l’amò
soprattutto il grande Giacomo Leopardi (1798-1837) – da Canti, Newton Compton, Roma l996 – che nel 1822 dedicò la canzone filosofica Ultimo canto di Saffo alla
poetessa e alla sua infelicità in amore; a lei, il poeta si sentiva affine nel
tormento e nell’emarginazione, dovuti alla mancanza della grazia e della bellezza:
«[…] / Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella / sei tu, rorida terra. Ahi di
cotesta / infinita beltà parte nessuna / alla misera Saffo i numi e l’empia /
sorte non fenno. […] / […] / Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso /
macchiommi anzi il natale, onde sì torvo / il ciel mi fosse e di fortuna il
volto? / in che peccai bambina, allor che ignara / di misfatto è la vita, onde
poi scemo / di giovinezza, e disfiorato, al fuso / dell’indomita Parca si
volvesse / il ferrigno mio stame? […] / […] / […] Negletta prole / nascemmo al
pianto, e la ragione in grembo / de’ celesti si posa. Oh cure, oh speme / de’
più verd’anni! Alle sembianze il Padre, / alle amene sembianze eterno regno /
diè nelle genti; e per virili imprese, / per dotta lira o canto, / virtù non
luce in disadorno ammanto. / […] / […] Ogni più lieto / giorno di nostra età
primo s’invola. / Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l’ombra / della gelida
morte. Ecco di tante / sperate palme e dilettosi errori, / il Tartaro m’avanza;
e il prode ingegno / han la tenaria Diva, / e l’atra notte, e la silente riva.».
Il poeta
inglese John Keats (1795-1821) – da Sonetti, traduzione di
Roberto Cresti, Garzanti, Milano 2000 – , di umili origini e dalla vita piena di sofferenze, minato
dalla tisi e morto giovane, fece del culto della bellezza e del mondo greco di
Saffo un costante motivo d’ispirazione. Nel suo LVI sonetto – (a Fanny), scriveva dell’amore con una sensibilità
e con una morbosità esagerate, simili a quelle di Saffo: «Grazia ti grido, pietà, amore – sì, amore! / […]
/ Lascia che tutta ti abbia, tutta - sii mia! / […] / tu, fin nell’anima, ti prego,
dammi tutto, / non mi negar la fibra di una fibra, o morirò, / o, forse,
seguitando, misero servo tuo, / nella foschia dell’inutile pena, io scorderò /
i fini della vita – secco al palato dello spirito / il gusto, e il mio bramare
divenuto cieco.». Nel saggio Una stanza tutta per sé (cap. III) – traduzione di Maria Antonietta
Saracino, ne I Meridiani, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1998 – ,
Virginia Woolf accenna allo stato d’animo dell’infelice Keats «mentre cercava
di scrivere poesia per opporsi all’approssimarsi della morte e all’indifferenza
del mondo». Keats fu un grandissimo poeta, avvilito sia dalla miseria sia dal
disprezzo degli altri che non riusciva proprio a tollerare. Sulla sua tomba,
nel Cimitero Acattolico di Roma, fece incidere: «Qui giace un uomo il cui nome
fu scritto sull’acqua». Così invece non è stato, perché – pur
tardivo – è arrivato quel riconoscimento eterno, cui tanto agognava.
P.S. Un discreto film italiano del 1960 di
Pietro Francisci dal titolo Saffo Venere
di Lesbo –sceneggiato dallo
stesso Francisci insieme con Ennio De Concini e Luciano Martino, interpretato
da Antonio Battistella, Strelsa Brown, Renzo Cesena, Solvejg D'Assunta, Isa
Cresenzi, Jim Dolan, Mirella Di Centa, Riccardo Garrone e Tina Louise – racconta con forte spirito
d'avventura l'amore di Saffo per Faone.
Per informazioni su film a tematica
omosessuale femminile, vedere “I mille volti di Saffo al cinema” di Elena
Romanello (http://www.rivistahydepark.org/miscellanea/i-mille-volti-di-saffo-al-cinema-di-elena-romanello/).
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