mercoledì 17 aprile 2013

Angelica di Ludovico Ariosto: il carattere dietro il sorriso


Ludovico Ariosto                                Angelica
in un ritratto di Tiziano                       in un disegno di Gustavo Dorè


Ludovico Ariosto, nato a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474 da nobile famiglia (il padre Nicolò era ferrarese e la madre Doria era di origine reggiana), fu il primo di dieci figli ed ebbe un’infanzia serena, dedicandosi agli studi con l’aiuto di vari precettori. Rimase grato soprattutto al monaco agostiniano Gregorio di Spoleto per i suoi dotti insegnamenti umanistici; fu quindi orientato dal padre verso gli studi di legge. Poeta cortigiano, visse a Ferrara (in quel periodo la vera capitale del Rinascimento) sotto la protezione degli Estensi, godendo presso la loro corte di feste, di allegre riunioni e di vivaci rappresentazioni teatrali. Nel 1500, con la morte del padre finì purtroppo il periodo della spensieratezza e dovette pensare all’amministrazione familiare, al suo futuro e alla sistemazione dei numerosi fratelli e sorelle.
Fu un uomo sempre in bilico tra distrazione e ragionevolezza, fantasticheria e senso pratico, voglia di matrimonio e desiderio d’incarichi religiosi (prese gli ordini minori, entrando nel 1504 al servizio del cardinale Ippolito d’Este). Ebbe due figli da due donne umili: da Maria, una domestica, ebbe il figlio Giambattista; da Orsolina, divenuta poi moglie di un suo fattore, ebbe l’amatissimo figlio Virginio. S’innamorò poi di Alessandra Benucci, una nobildonna fiorentina moglie dell’amico Tito Strozzi, che sposò segretamente nel 1528 dopo la morte del marito. Il matrimonio rimase sempre segreto e i due sposi non vissero mai insieme, perché la moglie non voleva perdere la tutela dei figli e l’usufrutto del grande patrimonio del marito mentre Ludovico non voleva rinunciare ai benefici ecclesiastici degli ordini minori: fu però una unione quieta e felice.

Nel 1522, Ludovico ebbe dalla famiglia estense il governo della Garfagnana (travagliata da lotte e atti di brigantaggio) e seppe mostrare doti di saggio amministratore. Tornato a Ferrara nel 1525, acquistò la «parva domus» ove poté, grazie a una ricca pensione annua, abbandonarsi a quella piena vita letteraria cui aspirava. Nel 1531 incontrò a Venezia Tiziano che eseguì il suo famoso ritratto, conservato presso la National Gallery di Londra. Morì a Ferrara il 6 luglio del 1533), nell’intimità familiare, quando era già divenuto molto famoso in Italia e in Europa.

Uomo molto sensibile al grottesco e all’allegoria, fu autore dei Carmina (scritti in latino) e delle Satire e delle Rime (scritte in volgare). Ariosto è conosciuto soprattutto per il bellissimo poema in ottave Orlando Furioso (l’aggettivo “Furioso” deve intendersi nel senso latino di “Pazzo”), che – considerato il monumento più importante della poesia del Rinascimento – conobbe una fortuna immensa sia nel Cinquecento sia nei secoli successivi, venendo tradotto in molte lingue. Il poema inizia con i notissimi versi: «Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto, / […] / Nata pochi dì inanzi era una gara / tra il conte Orlando e il suo cugin Rinaldo; / che ambi avean per la bellezza rara / d’amoroso disio l’animo caldo. / […]» (c. I). Con questa opera, alla quale lavorò per moltissimi anni fino a partire dal 1504,  rielaborando diverse edizioni via via sempre più complete, tentò di dare un nobile seguito all’Orlando innamorato di Matteo Maria Boiardo (Scandiano, 1441– 1494), riprendendo gli argomenti dei poemi cavallereschi e rifacendosi ai temi della tradizione carolingia e bretone. Affrontò, tuttavia, i classici temi dell’avventura, della cortesia e dell’eroismo con grande senso del fiabesco, descrivendo imprese assolutamente al di fuori della realtà, vissute tra sogno e finzione.

L’argomento del poema è noto: si narra la guerra tra Saraceni e Cristiani ai tempi di Carlo Magno ma gli argomenti amorosi vi sono privilegiati. Ricordiamo, infatti, l’amore di Orlando e Rinaldo per la principessa Angelica bella ma volitiva: «questa, se non sapete, Angelica era, / del gran Can del Catai la figlia altiera. / […]» (c. XIX). Anche il guerriero saraceno Ferraù s’innamora di Angelica: «E perché era cortese, e non avea forse / non meno de’ due cugini il petto caldo / […]». E ancora altri hanno «il petto acceso» da Angelica, come Sacripante, il re pagano di Circassìa. Angelica «Fugge tra selve spaventose e scure, / per lochi inabitati, ermi e selvaggi» mentre «Segue Rinaldo, e d’ira si distrugge» (c. I). A causa dello stesso amore ossessivo, il paladino per antonomasia Orlando dimentica i suoi doveri di guerra e si lancia all’inseguimento dell’amata: «L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia / per Italia cercarla e per Lamagna (Germania), / per la nuova Castiglia e per la vecchia, / e poi passare in Libia il mar di Spagna. / […]» (c. XII). Ma Angelica s’innamora invece dell’umile e giovanissimo soldato saraceno, Medoro, che soccorre ferito e che alla fine sposa: «Quando Angelica vide il giovinetto / languir ferito, assai vicino a morte, / […] / insolita pietade in mezzo al petto / si sentì entrar per disusate porte, / che le fe’ il dur cor tenero e molle, / e più quando il suo caso egli narròlle. / […] / Poi vistone i costumi e la beltade, / roder si sentì il cor d’ascosa (invisibile) lima; / roder si sentì il core, e a poco a poco / tutto infiammato d’amoroso fuoco./ […]» (c. XIX). Il matrimonio di Angelica e Medoro suscita però la furiosa gelosia di Orlando che distrugge impazzito tutto ciò che incontra sulla sua strada: «Angelica e Medor con cento nodi / legati insieme, e in cento lochi vede. / Quante lettere son, tanti son chiodi / coi quali Amore il cor gli punge e fiede (ferisce). / Ma sempre più raccende e più rinnova, / quanto spegner più cerca, il rio sospetto: / […] / Quanto più cerca ritrovar quiete, / tanto ritrova più travaglio e pena; / […] / Di pianger mai, mai di gridar non resta; / né la notte né ’il dì si dà mai pace. / Fugge cittadi e borghi, e alla foresta / sul terren duro al discoperto giace. / […] / Di crescer non cessò la pena acerba, / che fuor di senno al fin l’ebbe condotto. / […] / In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in ogni senso. / […]» (c. XXIII).

Ma altri amori si agitano nel poema: il crudo saraceno Ruggero s’innamora di Bradamante, guerriera cristiana e sorella di Rinaldo, convertendosi e divenendo un coraggioso eroe cristiano. Isabella s’invaghisce di Zerbino, e Fiordiligi di Brandimarte. è evidente che, in questa opera, l’amore spadroneggia: ora è un amore torbido e sensuale oppure un amore casto e tenero, ora è invece una passione nobile e alta oppure qualcosa di tumultuoso e travolgente che porta alla perdita del controllo di sé. Alla fine del poema, in modo assolutamente surreale, il cugino Astolfo è costretto a recuperare il senno d’Orlando sulla luna, affinché egli rinsavisca riprendendo il suo giusto ruolo di paladino nella guerra santa.

Ariosto visse una vita senza eccessi, senza passioni politiche, senza grandi entusiasmi civili, senza conflitti interiori o dubbi, e forse anche senza senso religioso ma seppe coltivare nel suo percorso esistenziale l’amore per la poesia e quello per la donna amata, alla quale tributò sempre una costante e tenace passione e alla quale dedicò molte delle sue rime. A differenza di Dante e Petrarca, non mostrò nessuna tendenza al vagheggiamento o alla trasfigurazione dell’essere femminile ma amò la sua donna con l’occhio lucido di chi guarda la realtà e la subisce, accettandola con serena superiorità e ripiegandosi egoisticamente nel suo individualismo. La critica lo definì il «poeta dell’armonia», per evidenziare la sua caratteristica di voler comporre i contrari e il suo saper contemplare in modo calmo e distaccato sia la vita che le sue occasioni, affidate sia alla «virtù» dell’uomo sia alla «fortuna» della sorte. In ciò, l’Ariosto uomo dagli interessi terreni e amante della vita privata (e nel profondo, indifferente al soprannaturale) fu certamente il maturo protagonista umanistico di una nuova civiltà, il Rinascimento.

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