Ludovico Ariosto Angelica
in un ritratto di Tiziano in
un disegno di Gustavo Dorè
Ludovico
Ariosto, nato a Reggio Emilia l’8 settembre del 1474 da nobile famiglia (il
padre Nicolò era ferrarese e la madre Doria era di origine reggiana), fu il
primo di dieci figli ed ebbe un’infanzia serena, dedicandosi agli studi con l’aiuto
di vari precettori. Rimase grato soprattutto al monaco agostiniano Gregorio di
Spoleto per i suoi dotti insegnamenti umanistici; fu quindi orientato dal padre
verso gli studi di legge. Poeta cortigiano, visse a Ferrara (in quel periodo la
vera capitale del Rinascimento) sotto la protezione degli Estensi, godendo
presso la loro corte di feste, di allegre riunioni e di vivaci rappresentazioni
teatrali. Nel 1500, con la morte del padre finì purtroppo il periodo della
spensieratezza e dovette pensare all’amministrazione familiare, al suo futuro e
alla sistemazione dei numerosi fratelli e sorelle.
Fu un
uomo sempre in bilico tra distrazione e ragionevolezza, fantasticheria e senso
pratico, voglia di matrimonio e desiderio d’incarichi religiosi (prese gli
ordini minori, entrando nel 1504 al servizio del cardinale Ippolito d’Este).
Ebbe due figli da due donne umili: da Maria, una domestica, ebbe il figlio
Giambattista; da Orsolina, divenuta poi moglie di un suo fattore, ebbe l’amatissimo
figlio Virginio. S’innamorò poi di Alessandra Benucci, una nobildonna fiorentina
moglie dell’amico Tito Strozzi, che sposò segretamente nel 1528 dopo la morte
del marito. Il matrimonio rimase sempre segreto e i due sposi non vissero mai
insieme, perché la moglie non voleva perdere la tutela dei figli e l’usufrutto
del grande patrimonio del marito mentre Ludovico non voleva rinunciare ai
benefici ecclesiastici degli ordini minori: fu però una unione quieta e felice.
Nel 1522,
Ludovico ebbe dalla famiglia estense il governo della Garfagnana (travagliata
da lotte e atti di brigantaggio) e seppe mostrare doti di saggio
amministratore. Tornato a Ferrara nel 1525, acquistò la «parva domus» ove poté, grazie a una
ricca pensione annua, abbandonarsi a quella piena vita letteraria cui aspirava.
Nel 1531 incontrò a Venezia Tiziano che eseguì il suo famoso ritratto,
conservato presso la National Gallery di Londra. Morì a Ferrara il 6 luglio del
1533), nell’intimità familiare, quando era già divenuto molto famoso in Italia
e in Europa.
Uomo
molto sensibile al grottesco e all’allegoria, fu autore dei Carmina (scritti in latino) e
delle Satire e delle Rime (scritte in volgare). Ariosto
è conosciuto soprattutto per il bellissimo poema in ottave Orlando Furioso (l’aggettivo “Furioso” deve intendersi nel senso
latino di “Pazzo”), che – considerato il monumento più
importante della poesia del Rinascimento –
conobbe una fortuna immensa sia nel Cinquecento sia nei secoli successivi,
venendo tradotto in molte lingue. Il poema inizia con i notissimi versi: «Le
donne, i cavallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto,
/ […] / Nata pochi dì inanzi era una gara / tra il conte Orlando e il suo cugin
Rinaldo; / che ambi avean per la bellezza rara / d’amoroso disio l’animo caldo.
/ […]» (c. I). Con questa opera, alla quale lavorò per moltissimi anni fino
a partire dal 1504, rielaborando diverse
edizioni via via sempre più complete, tentò di dare un nobile seguito all’Orlando
innamorato di Matteo Maria Boiardo (Scandiano, 1441– 1494), riprendendo gli argomenti dei poemi cavallereschi e
rifacendosi ai temi della tradizione carolingia e bretone. Affrontò, tuttavia,
i classici temi dell’avventura, della cortesia e dell’eroismo con grande senso
del fiabesco, descrivendo imprese assolutamente al di fuori della realtà,
vissute tra sogno e finzione.
L’argomento
del poema è noto: si narra la guerra tra Saraceni e Cristiani ai tempi di Carlo
Magno ma gli argomenti amorosi vi sono privilegiati. Ricordiamo, infatti, l’amore
di Orlando e Rinaldo per la principessa Angelica bella ma volitiva: «questa, se
non sapete, Angelica era, / del gran Can del Catai la figlia altiera. / […]» (c. XIX). Anche il
guerriero saraceno Ferraù s’innamora di Angelica: «E perché era cortese, e non avea forse / non meno de’ due cugini il
petto caldo / […]». E ancora altri hanno «il petto acceso» da Angelica, come Sacripante, il re pagano di
Circassìa. Angelica «Fugge tra selve
spaventose e scure, / per lochi inabitati, ermi e selvaggi» mentre «Segue
Rinaldo, e d’ira si distrugge»
(c. I). A causa dello stesso amore ossessivo, il paladino per
antonomasia Orlando dimentica i suoi doveri di guerra e si lancia all’inseguimento
dell’amata: «L’ha cercata per Francia:
or s’apparecchia / per Italia cercarla e per Lamagna (Germania), / per la nuova Castiglia e per la vecchia, / e poi passare in Libia
il mar di Spagna. / […]» (c. XII). Ma Angelica s’innamora invece
dell’umile e giovanissimo soldato saraceno, Medoro, che soccorre ferito e che alla
fine sposa: «Quando Angelica vide il
giovinetto / languir ferito, assai vicino a morte, / […] / insolita pietade in mezzo al petto / si
sentì entrar per disusate porte, / che le fe’ il dur cor tenero e molle, / e
più quando il suo caso egli narròlle. / […] / Poi vistone i costumi e la beltade, / roder si sentì il cor d’ascosa
(invisibile) lima; / roder si sentì il core, e a poco a
poco / tutto infiammato d’amoroso fuoco./ […]» (c. XIX). Il
matrimonio di Angelica e Medoro suscita però la furiosa gelosia di Orlando che
distrugge impazzito tutto ciò che incontra sulla sua strada: «Angelica e Medor con cento nodi / legati
insieme, e in cento lochi vede. / Quante lettere son, tanti son chiodi / coi
quali Amore il cor gli punge e fiede (ferisce). / Ma sempre più raccende e più rinnova, /
quanto spegner più cerca, il rio sospetto: / […] / Quanto più cerca ritrovar quiete, / tanto ritrova più travaglio e
pena; / […] / Di pianger mai,
mai di gridar non resta; / né la notte né ’il dì si dà mai pace. / Fugge cittadi
e borghi, e alla foresta / sul terren duro al discoperto giace. / […] / Di crescer non cessò la pena acerba, /
che fuor di senno al fin l’ebbe condotto. / […] / In tanta rabbia, in tanto furor venne, / che rimase offuscato in
ogni senso. / […]» (c. XXIII).
Ma altri
amori si agitano nel poema: il crudo saraceno Ruggero s’innamora di Bradamante,
guerriera cristiana e sorella di Rinaldo, convertendosi e divenendo un
coraggioso eroe cristiano. Isabella s’invaghisce di Zerbino, e Fiordiligi di
Brandimarte. è evidente che, in
questa opera, l’amore spadroneggia: ora è un amore torbido e sensuale oppure un
amore casto e tenero, ora è invece una passione nobile e alta oppure qualcosa
di tumultuoso e travolgente che porta alla perdita del controllo di sé. Alla
fine del poema, in modo assolutamente surreale, il cugino Astolfo è costretto a
recuperare il senno d’Orlando sulla luna, affinché egli rinsavisca riprendendo
il suo giusto ruolo di paladino nella guerra santa.
Ariosto visse una vita senza eccessi, senza passioni politiche, senza
grandi entusiasmi civili, senza conflitti interiori o dubbi, e forse anche senza
senso religioso ma seppe coltivare nel suo percorso esistenziale l’amore per la
poesia e quello per la donna amata, alla quale tributò sempre una costante e
tenace passione e alla quale dedicò molte delle sue rime. A differenza di Dante
e Petrarca, non mostrò nessuna tendenza al vagheggiamento o alla
trasfigurazione dell’essere femminile ma amò la sua donna con l’occhio lucido
di chi guarda la realtà e la subisce, accettandola con serena superiorità e
ripiegandosi egoisticamente nel suo individualismo. La critica lo definì il «poeta dell’armonia», per evidenziare
la sua caratteristica di voler comporre i contrari e il suo saper contemplare
in modo calmo e distaccato sia la vita che le sue occasioni, affidate sia alla «virtù» dell’uomo sia alla «fortuna» della sorte. In ciò, l’Ariosto
– uomo dagli interessi terreni
e amante della vita privata (e nel profondo, indifferente al soprannaturale) – fu certamente il maturo
protagonista umanistico di una nuova civiltà, il Rinascimento.
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