Torquato
Tasso
Torquato Tasso ha composto liriche di
struggente malinconia, nelle quali tutto appare muto e immobile, e tutto evidenzia
il silenzio di un’anima e la tristezza cupa di un uomo infelice. Pur tuttavia
le sue poesie, piene di eleganza, guardano a Petrarca e ai poeti greci e
latini, esprimendo un gusto nuovo e soluzioni verbali diverse. Ne ricordo
soltanto due, tratte dalle “Rime”.
Tacciono
i boschi e i fiumi.
Tacciono
i boschi e i fiumi
e ’l mar
senza onda giace;
ne le
spelonche i venti han tregua e pace,
e ne la
notte bruna
alto
silenzio fa la bianca luna;
e noi
tegnamo ascose
le
dolcezze amorose:
Amor non
parli o spiri,
sien muti
i baci e muti i miei sospiri.
Qual
rugiada o qual pianto.
Qual
rugiada o qual pianto,
quai
lagrime eran quelle
che
sparger vidi dal notturno manto
e dal
candido volto de le stelle?
E perché
seminò la bianca luna
di
cristalline stelle un puro nembo
a l’erba
fresca in grembo?
Perché
nell’aria bruna
s’udìan,
quasi dolendo, intorno intorno
gir
l’aure insino al giorno?
Fur segni
forse de la tua partita,
vita de
la mia vita?
Tasso fu però
anche l’autore di componimenti cavallereschi e di drammi pastorali, soprattutto
della Gerusalemme Liberata,
il grande poema eroico–cavalleresco in ottave, ispirato alla prima Crociata. La
storia del poema è quanto mai complessa e riguarda la lotta dei Cristiani
contro i Musulmani per liberare il Santo Sepolcro.
L’inizio
del poema è noto: «Canto l’armi
pietose e ’l capitano / che il gran sepolcro liberò di Cristo / […]».
Combattono, da un lato, il valoroso Goffredo di Buglione insieme a Rinaldo (il
progenitore della stirpe estense), Tancredi, la vergine Sofronia e Ottone
(destinato a morire); dall’altro, rispondono invece alla feroce lotta il re
Aladino con Argante (prode circasso), Clorinda (della quale s’innamora
perdutamente Tancredi, avendola veduta fortuitamente mentre si lavava il viso a
una fonte), Erminia (figlia del re di Antiochia, che – prigioniera di Tancredi –
s’innamorata di lui e ne ha in dono la libertà) e la maga Armida, la quale
cerca di distogliere i cavalieri cristiani dalla lotta usando tutte le sue arti
magiche, e ci riesce attirando Tancredi nel suo palazzo incantato.
Nel poema
ci sono brani bellissimi e molto conosciuti, come quello del primo scontro in
duello tra Clorinda e Tancredi, che riconosce nell’aggressiva nemica la ragazza
bionda di cui si è innamorato: «[…] / Clorinda
intanto ad incontrar l’assalto / va di Tancredi, e pon la lancia in resta. /
Ferirsi alle visiere, e i tronchi (le
lance) in alto / volaro e
parte nuda ella ne resta; / ché, rotti i lacci all’elmo suo, d’un salto /
(mirabil colpo!) ei le balzò in testa; / e, le chiome dorate al vento sparse, /
giovane donna in mezzo al campo apparse. / Lampeggiàr gli occhi, e folgoràr gli
sguardi, / dolci ne l’ira; or che sarian nel riso? / Tancredi, a che pur pensi?
a che pur guardi? / non riconosci tu l’amato viso? / Questo è pur quel bel
volto onde tutt’ardi; / tuo cor il dica, ov’è ’l suo essempio inciso. / Questa
è colei, che rinfrescar la fronte / vedesti già nel solitario fonte. / […]»
(c. iii).
Un altro
noto e stupendo brano è quello di Erminia tra i pastori; la giovane donna è in
fuga (perché inseguita dai cavalieri cristiani) e si dispera piangendo per
l’amore impossibile che prova per Tancredi, causa della perdita dei suoi cari e
della sua città. Erminia ama perdutamente chi dovrebbe odiare, e sulle sue
labbra si mescolano parole d’amore e odio, così come i diversi sentimenti si
mescolano nel suo infelice cuore dilaniato: «In tanto Erminia infra l’ombrose piante / d’antica selva dal cavallo è
scòrta (trasportata), / né più governa il fren la man tremante, / e mezza quasi par tra
viva e morta. / […] / Ella pur fugge, e timida e smarrita / non si volge a
mirar s’anco è seguita. / Fuggì tutta la notte, e tutto il giorno / errò senza
consiglio e senza guida, / non udendo e vedendo altro d’intorno, / che le
lagrime sue, che le sue strida. / […] / Cibo non prende già; ché dei suoi mali
/ solo si pasce, e sol di pianto ha sete: / ma ’l sonno, che de’ miseri mortali
/ è co ’l suo dolce oblìo posa e quiete, / sopì co’ sensi i suoi dolori, e
l’ali / dispiegò sovra lei placide e chete; / né però cessa Amore con varie
forme / la sua pace turbar mentre ella dorme. / […]» (c. vii).
E nel
buio di una selva, in un duro e cruento duello, Tancredi uccide Clorinda che
non ha riconosciuto (perché porta l’armatura) e che crede un guerriero pagano:
«[…] / Tre volte il cavalier la donna
stringe / con le robuste braccia, ed altrettante / da que’ nodi tenaci ella si
scinge, / nodi di fier nemico, e non d’amante. / […] / Vede Tancredi in maggior
copia il sangue / del suo nemico, e sé non tanto offeso. / Ne gode e
superbisce. Oh nostra folle / mente, ch’ogn’aura di fortuna estolle (esalta)! / Misero, di che godi? o quanto mesti / fiano i trionfi ed infelice
il vanto! / Gli occhi tuoi pagheran (se in vita resti) / di quel sangue ogni
stilla un mar di pianto. / […] / Ma ecco omai l’ora fatale è giunta / che ’l
viver di Clorinda al suo fin deve. / Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,
/ che vi s’immerge, e ’l sangue avido beve; / […]». Ferita a morte, Clorinda
perdona Tancredi chiedendo il suo perdono e pregandolo di somministrarle il
battesimo. Tancredi le si avvicina e le scopre il viso: «[…] / La vide, la conobbe; e restò senza / e voce e moto. Ahi vista! ahi
conoscenza! / […] / e premendo il suo affanno a dar si volse / vita con l’acqua
a chi col ferro uccise. / […]» (c. xii).
In un
turbinio di boschi incantati, magie e apparizioni (di angeli, ninfe tentatrici,
demoni e parvenze soprannaturali), Rinaldo, Tancredi e Goffredo riescono infine
a sconfiggere i nemici e a conquistare la torre di David.
Torquato
Tasso ebbe una vita triste e tormentatissima. Era nato a Sorrento l’11 marzo del 1544, ove visse la sua
infanzia, ma la famiglia fu costretta a smembrarsi poiché il padre Bernardo –
un poeta in esilio – aveva perso la sua fortuna per motivi politici (compresa
la casa di Sorrento) e la madre – una gentildonna napoletana di origine
pistoiese – non aveva potuto avere la dote per contrasti familiari. Torquato
visse col padre a Roma mentre la madre (che Torquato perse a dodici anni) restò
a vivere a Napoli con la sorella Cornelia. Già a quindici anni il poeta aveva
iniziato la composizione del poema Gerusalemme liberata, completato nel
1575. La stesura definitiva dell’opera rappresentò per il poeta (uomo fragile e
solitario) un lavoro estenuante a causa di dubbi religiosi, di discussioni
interminabili con letterati e teologi ai quali aveva affidato la revisione del
testo, e di continue riscritture. Si tratta certamente di un capolavoro, i cui
personaggi più riusciti hanno ricevuto dalla critica moderna un diverso
approfondimento psicologico. Questo poema è stato, però, troppo spesso
confrontato (soprattutto dalla critica del passato) col capolavoro di Ariosto,
a tutto danno dell’opera del Tasso: due acuti critici, molto avversi a Tasso,
furono per esempio Galileo Galilei e Alessandro Manzoni. Nella critica
letteraria, tuttavia, il paragone tra due artisti, oltre che un tentativo
impossibile e fuorviante, è anche assolutamente improponibile perché non sono
confrontabili due autori di diversa personalità e dai diversi mondi poetici,
vissuti in due tempi diversi del Rinascimento (l’umanesimo per Ariosto e
l’evoluzione verso l’età barocca per Tasso), e soprattutto in due momenti
diversi della corte estense (il periodo del grande splendore per Ariosto e il
periodo del declino politico–economico e dell’involuzione morale per Tasso). Ariosto
e Tasso, in effetti, furono due uomini profondamente differenti: Ariosto era un
uomo pacato e quieto con un sano amore per la vita, Tasso era invece un uomo di
corte inquieto e pessimista, espressione emblematica dell’inizio della decadenza
del Rinascimento, un intellettuale che cercava di reagire e di affermare i
principi della libertà e della dignità umana. Tentò, inizialmente, di
rappresentare un mondo ricco di passioni eroiche e di nobili virtù ma, in
seguito, scoraggiato e disilluso, si arrese sia dal punto di vista umano sia da
quello poetico. Subì con angoscia il soffocamento della vita culturale del
tempo a causa delle continue costrizioni e interferenze del tribunale
dell’Inquisizione: una fissazione religiosa – fatta di paura ansiosa e di scrupoli
ossessionanti – lo spinse addirittura ad autoaccusarsi di eresia davanti
all’Inquisizione.
In età
giovanile, Tasso cercò di raggiungere una stabilità esistenziale nella vita a
corte di Ferrara col cardinale Luigi d’Este e col duca Alfonso ii, per il quale curò la
rappresentazione dell’Aminta,
una favola pastorale che ebbe grande successo. Nel 1577, purtroppo, il poeta iniziò
a manifestare i primi segni di una grave malattia psichica con manie di
persecuzione e grave depressione psichica: tentò addirittura di accoltellare un
servo che credeva infedele. In pieno delirio mentale, fu ricoverato nel 1579
presso l’ospedale S. Anna dove rimase per sette anni come un ricoverato in
stato di reclusione. Dimesso per l’intervento di Vincenzo Gonzaga (principe di
Mantova e cognato d’Alfonso ii),
restò un disadattato in preda a stati di confusione e allucinazioni. Nonostante
fosse circondato da fama e considerazione, andò ramingo per tutta l’Italia
(anche ritornando nella natia Sorrento) nella speranza continua di ricevere l’“incoronazione”, quella fastosa festa
che avrebbe dovuto riconoscerlo come un grande scrittore e come un sommo poeta.
Nell’ultimo
periodo, proprio quando il suo equilibrio psichico era più precario e la sua
memoria molto compromessa, si dedicò al rifacimento della Gerusalemme liberata che portò alla pubblicazione nel 1593 della Gerusalemme
conquistata, che non
ebbe però né un gran successo né delle critiche favorevoli. D’altra parte,
anche i critici moderni sono del parere che le modifiche e le correzioni,
apportate dal Tasso alla sua appassionata e riuscita opera della giovinezza
(originate più da preoccupazioni religiose che da intenti letterari), hanno
avuto un esito negativo e infelice, trasformando dei personaggi ricchi di vita
poetica in figure manierate e caricaturali.
Dal 1585
alla sua morte, avvenuta il 25 aprile del 1595 in un monastero a Roma ove si
era ritirato, si dedicò alla composizione delle Rime sacre, che rivelavano pienamente quel senso di
stanchezza morale e di frustrazione, vissuto dal poeta negli ultimi tempi della
sua vita. Di questo stesso periodo, è il poema Le sette giornate del mondo
creato, completato un anno prima della morte e pubblicato postumo,
nel quale dominava la lugubre e desolata consapevolezza della precaria caducità
di tutte le cose. Nel suo essere sempre in bilico tra il nulla e l’immensità,
nel suo vivere una persistente crisi esistenziale, Tasso è apparso ai poeti dei
secoli successivi come un poeta “romantico”
ante–litteram. Goethe ha dedicato ai conflitti spirituali del grande poeta
italiano l’appassionato dramma in versi Torquato
Tasso (1790).
Il regista Carlo Ludovico Bragaglia nel 1957 trasse liberamente
dal poema epico di Torquato Tasso il film La
Gerusalemme liberata, per la sceneggiatura di Sandro Continenza, con Francisco
Rabal (Tancredi), Sylva Koscina (Clorinda), Rick Battaglia (Rinaldo), Gianna
Maria Canale (Armida), Livia Contardi (Erminia), Andrea Aureli (Argante) e Philippe
Hersent (Goffredo di Buglione). Non è certamente un capolavoro ma risponde bene
ai canoni del film di avventura di quel periodo cinematografico.
Non possiamo dimenticare la rappresentazione che in Sicilia
viene fatta della Gerusalemme Liberata
da parte dei tanti pupari che con dedizione cercano di mantenere viva questa grande
tradizione culturale orale. Ricordo sopratutto I pupi di Emanuele Macrì, che è stato ospitato presso Il Teatro dei
Servi di Roma (Macrì è il puparo più noto al di fuori della Sicilia).
Nel 2010, per la regia di Anna
Bonaiuto (Compagnia/Produzione: Fondazione De Sanctis), Anna Bonaiuto, presso
il teatro Petruzzelli di Bari, ha letto i più bei passi de La Gerusalemme Liberata, e la lettura (assolutamente gratuita sino
a esaurimento posti) è stata introdotta da una relazione critica della
professoressa Nadia Fusini.
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