Mariangela Melato è Medea di Euripide
A Mariangela Melato, purtroppo prematuramente scomparsa, superba Medea
del grande poeta tragico greco Euripide (485-406 a.C.), che seppe esprimere
atteggiamenti di profonda introspezione psicologica, a lei – indimenticabile e indimenticata – dedico questo mio articolo sulla Medea di Euripide (abbiamo visto
Mariangela proprio in queste ore, insuperabile interprete su Rai5 dal Teatro
Storchi di Modena per la regia di Giancarlo Sepe).
Nella sua tragedia Medea (traduzione
del grecista Ettore Romagnoli
(http://www.rodoni.ch/busoni/euripide/euripidemedea42.htm), scritta nel 431,
Euripide fa esplodere un amore femminile spaventoso, che tutto distrugge in una
tensione psicologica spasmodica.
In Colchide, Medea (il nome
significa «colei che porta consiglio»), la figlia del re del luogo e maga,
tradendo il padre e uccidendo il fratello, ha salvato da morte certa Giasone
(del quale si è innamorata), pervenuto colà per conquistare il vello d’oro (simbolo
antropologico di fertilità e di dominio maschile). Lo ha seguito poi in Grecia,
avendone due figli. Giunto a Corinto, avendo avuto la promessa di divenire re
di Corinto, Giasone si fidanza con Creusa, la figlia di Creonte, e dimentica
Medea e i figli. Creonte intuisce la gelosia di quella donna barbara e decide
di cacciarla da Corinto insieme ai suoi figli: ha capito che Medea è «tremenda»
e che ha «un’anima superba, che ignora pietà». Egli ne teme giustamente «il
muto rancore» («è meglio venirti in odio, o donna, oggi, che debole essere, e
dopo amaramente piangerne»). All’inizio, Medea si dispera, infatti le ha detto
l’Aio: «[…] Impara / che ciascuno ama sé più che il suo prossimo, / quando vedi
che più non ama il padre, / per le nozze novelle, il proprio sangue.».
All’improvviso Medea, poi, si calma, perché ha già meditato di distruggere
tutto ciò che Giasone ambisce e ama: «[…] Deh, possa io vederlo / con la sposa,
con tutta la casa / stritolato! Ché primi d’obbrobrio / mi copersero. […]».
Rimasta sola e senza patria, in balia
di una gelosia folle e distruttiva, Medea vuole vendetta a tutti i costi e
manifesta la sua sofferenza in numerosi soliloqui di grande potenza
psicologica: «Su me piombò questo inatteso evento, / e il cuore mi spezzò.
Perduta io sono: / più non ho gioia della vita, e voglio / morire amiche,
quando l’uom che tutto, / lo vedo or bene, era per me, lo sposo / mio, s’è
mostrato il più tristo degli uomini. / Fra quante creature han senso e spirito,
/ noi donne siam di tutte le più misere. / Ché, con profluvii di ricchezze
prima / dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo / – male dell’altro anche peggiore – despota / del nostro corpo […]». Possente è il contrasto tra i
due coniugi, con Medea che è come invasata dal furore e con Giasone che insiste
che sono stati i Numi a salvarlo e che –
ingrato – dice alla donna
offesa: «Che mi salvassi, qual ne sia la causa, / male non fu; ma dalla mia
salvezza / più ricevesti che non desti; […]». Egli, inoltre, giustifica il suo
matrimonio con Creusa con la scusa che non è originato dall’amore per un’altra
donna ma dal bene per i figli, che hanno così l’opportunità di divenire fratelli
dei figli d’una regina. Medea non vuol sentire ragioni e ha ormai deciso: «[…]
ché i figli nati / da me, più vivi non vedrà, né prole / dalla sua nuova sposa
avrà: ché deve / per i tossici miei morir la trista, / di trista morte./ […] /
Intendo ben che scempio son per compiere; / ma più che il senno può la
passione, / che di gran mali pei mortali è causa.».
A causa della sua mostruosa
gelosia, Medea fa morire Creonte e Creusa con vesti infuocate per incantesimo e
recate in omaggio dalla sua prole, e sgozza senza pietà i figli, accogliendo
con parole di scherno e d’insulto Giasone che con orrore viene a sapere che
«spenti fur dalla madre i figli tuoi… più non son vivi». Egli deve assistere
impotente all’allontanamento di Medea (con a fianco i cadaveri dei bambini) su
un carro trascinato da draghi alati, fornitole dal padre Sole. Non può dar loro
né un ultimo bacio né una degna sepoltura e assiste annientato alla perdita
della sua progenie.
La Medea di Euripide è sì una “tragica”
assassina ma è anche una madre tenerissima che sa parlare con grande lirismo
poetico.
E Medea ha una tale valenza
universale e una tale pluralità di significati che numerose sono state le
rivisitazioni del testo. Basta ricordarne soltanto alcune: la Medea di Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65
d.C.), tragedia ispirata da Euripide ma anche dall’omonimo testo perduto di Ovidio:
essa privilegia la gelosia dell’amore sul sentimento della vendetta (Medea è
soltanto una piccola donna «furibonda e inerme», esasperata dalla gelosia e
dall’ira), rompendo lo stereotipo e mostrando agli spettatori l’uccisione dei
figli eseguita dalla madre con furia sanguinaria, che nel dramma antico – come tutti gli eventi luttuosi – non veniva rappresentato ma era
narrato da un Nunzio: «E quanto sangue e quante / Fiate ho sparso: e pure / Ira
non fu cagione, / Ma solo amor, che m’arse / Di questo ingrato il petto… /
Fortuna può ben le ricchezze torre / Ma non l’animo franco.» (Atto primo,
traduzione di Ludovico Dolce del 1560).
Un’altra rilettura di Medea è
quella fatta dallo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956), che – interessato alla rielaborazione
della mitologia classica – così
scriveva: «Abbiamo sempre bisogno di ricorrere ai miti del passato per stabilire
i termini del presente… L’antichità aggiunge nobiltà al dramma borghese, la
lontananza creata dal mito gli dà risonanza poetica. Il secondo dopoguerra,
come il primo, ha cercato di leggere chiaro nel destino contemporaneo
rispecchiandolo negli eroi del passato». Ne La
lunga notte di Medea (rappresentata nel 1949), per la quale si è parlato di
«spietato psicodramma della schiavitù passata e presente», la quale rispetta
l’ambientazione antica. La tragedia in due tempi di Alvaro è una elegia
ambientata in uno spazio notturno illuminato dalla luna, «la regina vagabonda»,
e la donna si ritiene «amica della notte e parente della luna». Medea è
rappresentata come una straniera, la «barbara» della Colchide che non smette
mai di essere tale per gli altri. Medea è una profuga perseguitata che è stata
oggetto d’intolleranza razziale e che non vuole esporre i figli alla sua stessa
sorte (li uccide per questo, non per gelosia o vendetta), è un’esule senza una
patria in cui esser padrona di sé e dei suoi figli («Quando mi acceca la
passione, tutto mi si confonde… Mi sto abituando a rimanere sola, vagabonda e
straniera… E non ho più l’antica forza e ferocia per difendermi da quello che
mi aspetta»). Alla fine Medea resta anche senza l’amato marito, e ne è
distrutta: «Giasone senza Medea non è che la metà di un canto di gloria… è bello, è mio!… Noi siamo marito e
moglie e non un eroe con la sua preda… Digli che lo aspetto… Giasone simile a
un re, sposerà Creusa. Ma è mio, è mio marito!… Amavo in lui un mondo libero
dal terrore… Per lui, non delitti ma imprese straordinarie, se tu – Creonte – mi togli a lui, diventeranno delitti»). E a Giasone urla: «Ora
tu diventi un re, e io avevo fatto di te un eroe… Volevi celebrare su di me la
tua vittoria ogni notte», e sui figli geme: «Se potessi ingoiarli nel mio
utero!». Lo stesso autore parlò di Medea come di «un’antenata di tante donne
che hanno subìto una persecuzione razziale e di tante che, respinte dalla loro
patria, vagano senza passaporto da nazione a nazione, popolano i campi di
concentramento e i campi di profughi», così umanizzando e modernizzando il mito
di Medea.
Una più recente rappresentazione
di Medea (traduzione di A. Raja, Editore E/O, collana Tascabili e/o, 2000) è
quella della scrittrice tedesca Christa Wolf (1929-), la quale ha scritto:
«Siamo noi che scendiamo fino agli antichi o sono loro che vengono da noi? Fa
lo stesso. Basta tendere la mano, passano dalla nostra parte con facilità,
ospiti estranei, uguali a noi.». Nel suo romanzo Medea – Voci (Medea – Stimmen), uscito nel
1996, la Wolf ribalta il mito di Euripide in una diversa ricostruzione storica,
dal momento che non crede possibile che una maga–-guaritrice possa avere ucciso i suoi figli, in tempi in cui i
figli erano considerati il bene supremo di una “tribù” (in effetti, fonti
antecedenti ad Euripide –
sensibili al tabù dell’infanticidio –
raccontano dei bambini di Medea portati nel tempio di Era allo scopo di
salvarli, che vengono uccisi dai Corinzi). Per la Wolf, Medea soffre perché
Giasone è distante e non più solidale, ma non è né gelosa né si sente esclusa o
emarginata, perché è sempre stata una donna libera e indipendente. Dopo che
tutto si è compiuto, Medea lancia la sua ultima maledizione: «Maledirli. La
maledizione su tutti voi. Io Medea, vi maledico. In quale luogo, io? è possibile un mondo, un tempo in cui
possa stare bene?». Comunque Medea, è ferita ma non annientata: donna di animo
libero, è schiacciata dal potere istituzionale ma s’intuisce che, senza darsi
per vinta, continuerà a lottare per sempre.
Da ciò che ho raccontato di questa
antichissima tragedia, è evidente la grande attualità di questa storia e di questi
tremendi sentimenti: quante vicende bollate dall’infanticidio e caratterizzate
da una simile folle e omicida gelosia di un genitore non si sono verificate
anche in tempi moderni!
Nessun commento:
Posta un commento