Alcesti di Walter Pagliaro
Questa tragedia,
scritta nel 438 da Euripide (485-406 a.C.) – uno dei maggiori poeti tragici greci – e la più antica rimasta integra (e questo potrebbe forse far
intuire quanto fosse amata e prediletta dal pubblico), rappresenta l’esaltazione
dell’amor muliebre. Alcesti è una donna che ama e che è chiamata a decidere del
suo destino: fidanzata, ha promesso di donare la sua vita e ora, sposa felice,
deve offrirsi al sacrificio estremo per amore.
La trama dell’Alcesti
è nota. Admeto, re dei Tessali, deve morire ma Apollo lo salva, convincendo le
dee del destino, le tre Parche, a scambiare la sua morte con quella di qualcun
altro. Nonostante siano molto vecchi, il padre e la madre rifiutano lo scambio,
così come gli amici più intimi; l’unica a offrirsi alla morte per salvarlo è
Alcesti, la figlia di Pelio, giovane e innamorata. Sono passati alcuni anni,
Admeto e Alcesti sono ormai sposi felici in un matrimonio allietato da figli,
ma l’ora è arrivata e Tanato – «giovine avvolto in un peplo nero» – vuol prendersi la vita di Alcesti,
convinto che «più grande è l’onor mio, se muore un giovine». Ercole perviene alla reggia di Admeto in
pieno lutto ma, per delicatezza, gli viene nascosta la morte di Alcesti e gli è
offerta una piena e festosa ospitalità; venuto a sapere della morte di Alcesti
e grato per il nobile gesto di Admeto, Ercole affronta Tanato e gli strappa
Alcesti restituendola al marito disperato. I brani sono tratti da Alcesti,
nella traduzione di Ettore Romagnoli (Roma 1871-1938, http://www.filosofico.net/alcestieuripide42.htm).
La scena si svolge
a Fere, in Tessaglia, dinanzi alla reggia d’Admeto e Apollo, uscendo dalla casa
d’Admeto, si volge a contemplarla e parla tristemente: «[…] Ora io da
morte, / deludendo le Parche, lo salvai. / Mi concessero quelle che l’Averno / schivar
potesse Admèto, se in sua vece / offrisse un altro agl’Inferi. Provò / tutti
gli amici, a tutti ebbe ricorso, / e al padre e alla canuta madre; e niuno / trovò,
tranne la sposa, che sostenne / per lui morire, e abbandonar la luce. / Ella,
portata a braccia, or ne la casa / l’anima rende. Ché morire deve / in questo
giorno, e abbandonar la vita. / […]».
Sconvolta, l’Ancella esclama: «Già presso è a morte, già lo spirto esala.», mentre il primo Corifeo si lamenta: «Di
quale sposa, ahi, quale sposo è privo!»;
a lui l’Ancella risponde: «Nol saprà, se perduta pria non l’abbia!». E il Primo Corifeo ribatte: «Sappi,
Alcèsti, che muor con te la donna / miglior fra quante sotto il sole vivono.». A lui con rammarico risponde l’Ancella:
«Come no? La migliore. E chi contendere / potrà che questa ogni altra donna
avanzi? / Chi mai potrà l’amor pel suo consorte / dimostrar meglio che per lui
morendo? / Ma questo a tutti i cittadini è noto. / Quanto in casa ella fece,
odi, e stupisci. / Poi che giungere vide il giorno estremo, / volonterosa, pria
le pure membra / lavò nella corrente acqua; e dall’arche / di cedro, vesti ed
ornamenti trasse, / e s’abbigliò compostamente. / […] / Entrò quindi nel
talamo, sul letto / nuziale; e qui pianse, e favellò. / “Letto che avesti il
fior della mia vita, / addio: non t’odio io, no, sebbene muoio / solo per te:
per non tradir lo sposo / e te, muoio. Sarai d’un’altra donna, / non più casta
di me: più fortunata” / E su vi cade; e lo bacia; e d’un fiotto / di lagrime la
coltre è molle tutta. / […] / Stretti alle vesti della madre, i figli / piangeano.
In braccio essa li prese: e già / moribonda, baciava or l’uno or l’altra. / Tutti
i servi piangean nella dimora / per la pietà della regina. Ed essa / tese a
tutti la destra. E niuno v’era / umil così, che a lui non favellasse, / che a
lei non rispondesse. Ecco che avviene / nella casa d’Admèto. Oh, s’egli fosse /
morto, non più sarebbe. Ma, scampato, / tale è il suo duol, che non avrà mai
fine.». Il Primo Corifeo compiange: «Di
sì nobile sposa andare privo! / Certo, per questo male Admèto piange.». E l’Ancella in accordo: «Tien fra
le braccia la diletta sposa, / e piange, e prega perché non lo lasci. / L’impossibile
cerca! Ella si strugge / nel suo male, si disfa, s’abbandona, / triste peso, al
suo braccio. E, benché poco / respiri più, del sole i raggi anela. / […]». A questo punto il Secondo Corifeo
si associa: «Oh vedi, vedi! / Esce già dalla reggia anche il signore. / Ulula,
piangi tu, suolo di Fère! / Dal morbo la migliore / delle donne consunta, / per
sotterraneo valico / nel buio Averno è giunta. / […]».
Entra Admèto, che sostiene Alcèsti moribonda, seguita dai figli che si
appendono alle sue vesti. E intorno stanno le Ancelle, i servi, e le guardie. E
l’infelice Alcèsti si guarda intorno: «Sole, luce del giorno, / ètere,
limpide veloci nuvole!» e a lei
risponde Admèto: «Te vede il sole e me, due sventurati. / Nulla
offendemmo i Numi: eppur tu muori. / […] / Misera, sorgi, non lasciarmi! Prega
/ gli Dei possenti ch’abbiano pietà.».
E Alcèsti replica: «Vedo la cimba (la barchetta), vedo! Con la mano sul remo,
/ Caronte, il navicchiere dei defunti, già già / mi chiama. “Non t’affretti?
Che indugi? Tarderemo / per te!”. La sua parola più veloce mi fa.». Admèto si dispera: «Strade di
pianto per gli amici, e più / per me, pei figli, che abbandoni in lutto.» e ancor più disperata Alcèsti: «Lasciatemi,
lasciatemi, / adagiatemi. Più / non mi reggono i piedi. / Morte è già presso: /
ombrosa notte sopra gli occhi repe (penetra). / Figli, figli, la madre / vostra
non vive più. / Addio, figli, godete / questa luce del giorno.». Replica Admèto: «Ahimè! Questi
detti al mio cuore / son più che ogni morte funesti! / Oh no, non partire, ti
prego / pei Numi, pei figli che tu / lasci orfani! Sorgi, fa’ cuore! / Se
muori, io morrò. / Tu sola puoi darmi la vita o la morte.».
E Alcèsti espone quel che è il suo testamento spirituale: «Admèto,
a te che la mia sorte vedi, / dirò, pria di morir, quello che bramo. / Io più
che me, te caro avendo, a prezzo / del viver mio, la luce a te serbata, / muoio.
[…] / Ma divelta da te non volli vivere / coi figli derelitti; e abbandonai / di
giovinezza i doni ond’io godevo. / L’uom che te generò, la madre tua / ti
tradirono. Ed erano pur giunti / agli anni in cui lasciar la vita è giusto; / e
bello era per lor salvare il figlio, / gloriosa la morte; e avean te solo, / né
speranza d’avere altri figliuoli / se tu morivi; ed io vissuto avrei / sempre
vicino a te; né tu soletto / piangeresti la sposa, e i figli tuoi / orfani
educheresti. Ma un Dio volle / che così fosse tutto questo. E sia. / Ma tu,
memore, rendimi una grazia. / […] Fa’ ch’essi padroni / sian della casa mia,
schiva le nozze, / ai figli miei non dare una matrigna, / che, non avendo il
cuore mio, per astio, / sui miei, sui tuoi figliuoli, alzi la mano. / Non
farlo, no, ti prego. / […] / Io morir devo, / e non domani, e non il terzo dì /
del mese, il mal m’attende; ma fra poco / viva chiamar me non potrete. Addio, /
siate felici. Gloriarti, o sposo, / potrai che la tua sposa ottima fu: / e voi,
figliuoli, della madre vostra. / […]».
Accorato, Admèto la rassicura: «Sarà, tutto sarà. Non temere. Io
/ t’ebbi sposa da viva; e morta, ancora / unica sposa mia detta sarai. / Niuna
Tessala più mi chiamerà / sposo, e sia pur di nobil sangue, sia / di vaghissime
forme. Ai Numi, questo / soltanto io chiedo: che mi sia concesso / gioir dei
figli, or che di te gioire / più non m’è dato. E non un anno il lutto / tuo
porterò; ma sin ch’io resti in vita, / o sposa: e aborrirò la madre mia, / il
padre aborrirò. M’erano amici, / non a fatti, a parole. Invece tu, / la
carissima vita in cambio offerta, / salvato m’hai. Come potrei non piangere, / perduta
avendo una compagna tale? / Porrò fine ai convivi, ed ai simposi, / alle
ghirlande, ai canti che sonavano / nella mia casa. Più non toccherò / cetra, né
più solleverò lo spirito, / cantando al suon di flauto libio. Tu / della vita m’hai
tolto ogni diletto. / La tua figura effigiata dalla / mano di saggio artefice,
starà / distesa su le coltrici; ed io, prono / accanto a lei, la cingerò con
queste / braccia, invocando il nome tuo, pensando / fra le braccia tener la mia
diletta. / Gelida gioia, ahimè! Ma forse il peso / solleverà dell’anima. E nei
sogni / m’apparirai, m’allieterai. Soave / è la notte vedere i nostri cari / quando
che sia. / […] / Ora attendimi là, quando io sia morto, / e prepara la casa ove
dimora / avrai con me. Ché porre io mi farò / in questa istessa arca di cedro,
il fianco / vicino al fianco tuo; né, morto, mai / sarò da te disgiunto, o sola
fida! / […]. Rivolgendosi ai figlioli, Alcèsti
si rallegra: «Figli, del padre le parole udiste: / non sposerà, che sia
vostra nemica, / un’altra donna: a me non farà torto.».
Admèto conferma ad Alcèsti che si manterrà fedele al suo ricordo e, per
sua mano, Alcèsti gli affida i figli, raccomandandogli di esser lui madre per
essi; quindi saluta i figli e il povero marito infelice dicendogli: «Chi
muor dispare (svanisce). Avrai medico il tempo.» e sentendo i suoi occhi già pieni d’ombra e il venir meno della vita.
Questa è la parte più bella della tragedia. Nel seguito della
tragedia, Ercole – che deve andare in
Tracia per sottrarre al re Diomede le sue terribili cavalle antropofaghe (ed è una
delle fatiche pensate per lui dal tiranno Euristeo), viene ricevuto con calda ospitalità
da Admeto, che lo invita nella reggia e gli nasconde il suo terribile lutto. Ubriaco,
al termine di un ricco banchetto, Ercole viene a sapere da un servo della morte
della padrona e del lutto di Admeto. Impietosito e commosso, attende al varco nei
pressi della tomba Tanato per sottrargli Alcesti e ritorna al palazzo con una
silenziosa donna velata, pregando Admeto di ospitarla nella sua casa. Admeto,
che si sente attratto dalla donna velata che somiglia ad Alcesti, non vorrebbe
ma alla fine cede alle insistenze di Ercole che, infine, svela l’identità della
donna e la ridona allo sposo felice.
Appare evidente che Alcesti non è un’eroina vera e propria:
infatti, piange, si dispera e si dibatte raccomandando i figli al marito ma
riesce a conservare intatta la sua dignità di donna e di madre, nonostante la
paura della morte. Alcesti è forse la moglie che Euripide avrebbe desiderato:
si sa per certo che il tragediografo ebbe due mogli e tre figli ma che i suoi
matrimoni non furono felici! Questo potrebbe forse spiegare lo sfondo di un’innata
e profonda misoginia da parte del poeta tragico, anche se la stupenda figura di
Alcesti non sembrerebbe confermare alcun sentimento anti–femminile, come pure le altre sue donne protagoniste piene di
passione e sensibilità.
Tra il 1950 e il 1951 lo scrittore calabrese Corrado Alvaro (1895-1956)
scrisse una moderna rilettura del mito di Euripide, un’Alcesti nella quale l’autore spostava l’attenzione da Alcesti e
Admeto a Feride, l’egoista e avaro padre di Admeto; egli sostituiva alla
perdita della sposa la perdita dei soldi e della casa, centro di aggregazione
dell’economia e degli affetti familiari per tre generazioni che ne uscivano
distrutte (i vecchi, gli adulti e i bambini). Come scrive Aldo Maria Morace (Corrado Alvaro, in “Storia generale
della letteratura italiana”, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, xi - Il Novecento, Motta, Milano 2000, 256-81):
«La tragedia esprimeva un incupirsi del pessimismo sul futuro della civiltà:
nell’ondata di violenza che pervadeva ogni aspetto della vita associata e nella
disgregazione della famiglia, Alvaro leggeva il dubbio di trovarsi alla vigilia
della fine. Sulla scorta di questa patologia della civiltà contemporanea,
Alvaro rivisita il soggetto euripideo senza rispettare la finzione antica: l’azione
viene trasportata ai nostri giorni e borghesizzata, per meglio ancorarla alle
angosce presenti della storia, come similmente avveniva negli stessi anni con
Gide, Cocteau, Anouilh, Camus, Sartre. In preda ad un’avarizia ossessiva, che è
provocata dalla paura di una prossima fine del mondo, Feride cede la casa in
cui abita con Admeto e Alcesti, scindendo il nucleo familiare ed abiurando la
sacralità della domus, poiché sente distrutta la solidarietà umana sin dalle
radici, nella sfera stessa della procreazione. Il grande tema alvariano della
frattura epocale impressa dal secondo conflitto mondiale perviene così ad un’alta
e dolente terribilità nel “cupio dissolvi” di Feride, arresosi – per perdita d’amore, per
disperazione della vita e dell’avvenire –
alla violenza, all’egoismo ed alla solitudine di una società che vive
per carica meccanica indotta senza più fede nel “domani”, nel sormontare del
terrore atomico (ed Alvaro è stato fra i primi a cogliere in un’opera teatrale
le implicazioni etiche e psicologiche di quest’evento, fondamentale nella
storia dell’umanità). Una nuova, e diversa, ed ancora più disperata “fuga senza
fine” da una società avversa: a suggellare nella catarsi della conoscenza
esistenziale la inquietante classicità e modernità della scrittura alvariana.».
L’Alcesti euripidea è una tragedia greca ancora molto
attuale e rappresentata: nel 2005 è stata presentata al Teatro Antico di
Taormina per la regia di Walter Pagliaro, con l’interpretazione della grande attrice
Micaela Esdra. Lo stesso regista e la stessa attrice hanno presentato Alcesti mon Amour (da Euripide) presso il
Teatro Astra di Torino nel marzo del 2012. Quest’ultima è stata una rilettura in
versione contemporanea di Pagliaro (traduzione
Filippo Amoroso, maschere e costumi di Giuseppe Andolfo), appassionato studioso
del teatro antico: «Alcesti è un’opera
segreta e misteriosa che esplora con sussulti e trepidazioni quel tragitto
inquietante che collega lo spazio della vita all’universo della morte. Lo
spettacolo si propone di indagare la complessità dei rapporti esistenti fra l’essere
e il non essere: la fine della vita si proietta per noi sulla scena, non come
un episodio improvviso e perentorio, ma come un viaggio con tappe fascinose e
terribili.»
(vedere: http://fondazionetpe.it/spettacoli/scheda/74/).
Il musicista tedesco Christoph Willibald Gluck (1714-1787) fece di
Alcesti l’indimenticabile eroina del suo melodramma Alceste,
rappresentato nel 1767.
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