Immagini da Edipo re, per la regia di Daniele Salvo
Alternandosi con la
tragedia di Sofocle, Antigone diretta
da Cristina Pezzoli, e con la commedia di Aristofane Donne al parlamento, diretta da Vincenzo Pirrotta, dall'11 maggio
al 23 giugno, presso il Teatro Greco di Siracusa, si rappresenta Edipo re, per la traduzione di Guido
Paduano e per la regia di Daniele Salvo, con Daniele Pecci (Edipo re), Laura
Marinoni (Giocasta), Maurizio Donadoni (Creonte, fratello di Giocasta), Ugo
Pagliai (l'indovino Tiresia), Mauro Avogadro (Servo di Laio e Sacerdote) e
Francesco Biscione (primo Nunzio). Per il Coro, l'Accademia d'Arte del Dramma
Antico della Fondazione Inda ha reso disponibili i suoi allievi del primo
corso.
Il noto attore televisivo e cinematografico Daniele Pecci è
un giovanile, bruno e vigoroso, Edipo re; ha confessato l'attore: «Per un
attore teatrale Edipo è uno dei pilastri su cui poggiare la propria carriera, un'occasione che capita una volta
nella vita. […] Ho cominciato questo mestiere con il teatro classico. Debuttai,
venticinque anni fa, proprio in un Edipo dove ero l'ultimo dei personaggi. Credo
che l'Edipo re sia la più bella tragedia, il più grande personaggio. Sofocle è
l'autore più potente, per me è un sogno che si realizza. […] Al cinema basta un
primo piano per arrivare allo spettatore, puoi, in un certo senso, permetterti di essere più passivo.
Invece il teatro è una forma attiva di
recitazione. L'attore deve penetrare lo spazio e il tempo e imporsi con una forza diversa. Con Daniele Salvo, il
regista, non ci siamo posti l'obiettivo di essere originali a tutti i costi.
Dopo la lettura del testo abbiamo deciso
di puntare sull'aspetto dispotico del personaggio, piuttosto che sul lato
vittimistico, quasi precristiano. Quella di Edipo è una tirannide arcaica,
violenta, ruvida. […] Ha una presenza fisica imponente, lo abbiamo dotato di
atleticità e forza fisica. […] Come da copione il nostro Edipo è zoppo. […]
Salvo ha molta esperienza, mi sono completamente affidato alla sua visione
registica, l'ho seguito in tutto. […] Spero che sia un trionfo, che al pubblico
piaccia il mio Edipo e che la produzione e il regista restino contenti"» (a
cura di Livianna Bubbico,
http://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2013/05/09/news/daniele_pecci_basta_soap_ora_faccio_edipo_a_siracusa-58416275/).
http://www.repubblica.it/spettacoli/teatro-danza/2013/05/09/news/daniele_pecci_basta_soap_ora_faccio_edipo_a_siracusa-58416275/).
Il regista è l'emiliano Daniele Salvo (grande attore e in
passato aiuto regista di Luca Ronconi), esperto di Sofocle, avendo già presentato
nel 2009 Edipo a Colono (2009) con
Giorgio Albertazzi e Aiace (2010) con
Maurizio Donadoni (spettacolo per il quale è stato premiato con un Premio
Golden Graal per la sezione dramma). Salvo ha sottolineato che «si tratta di
una tragedia complessa basata molto sull’inconscio e dalla matrice
prettamente freudiana» e ha precisato di
aver voluto lavorare molto «sulla credibilità, sulla verità profonda del testo».
In una sua intervista rilasciata durante le prove dello
spettacolo, con riferimento a Sofocle, Daniele Salvo ha detto: «È un autore
molto interessante, molto complesso e che si presta a interpretazioni molto
estreme e differenziate.»; ha precisando inoltre di aver voluto fare di “Edipo
re” una «versione molto poco ortodossa», simile alle «visioni anamorfiche» dei
quadri di Salvador Dalì o di Holbein, allineando dentro il testo «due o tre
interpretazioni diverse» e lasciando agli spettatori la possibilità di sceglierne
una. Salvo ha accennato a una «Tebe omertosa» e a un'«ambiguità del testo»
(tutti fingono di non sapere nulla ma in realtà tutti, inclusi Edipo e Giocasta,
seppure inconsciamente, sanno), e al suo desiderio di condurre lo spettatore al
centro di un incubo, al centro di un sogno che ha la dimensione freudiana di
un'auto-analisi. Spinto dagli oracoli, Edipo va alla ricerca di sé, nel
tentativo di scoprire il mistero dell'uomo ma il mistero dell’uomo in realtà
non viene risolto (in modo onirico Salvo usa lo spettro della sfinge per
dimostrare che non è stata sconfitta) ed Edipo soltanto alla fine, nel dolore e
nella sofferenza, conquisterà la consapevolezza. Parlando di Pecci, il suo
protagonista, ha detto Daniele Salvo: «con Daniele io intendevo fare un Edipo
molto giovane, un Edipo molto dinamico», che ha con la madre - ancora molto
femminile - un rapporto sensuale. Ha anche focalizzato nello spettacolo
teatrale al Teatro Greco «la ricerca recitativa», l'importante «rapporto con la
musica» e la sua collaborazione con Marco Podda, «uno scienziato che studia gli
effetti del suono sulla psiche umana», ponendo la musica al servizio del
linguaggio in un coinvolgimento emotivo di tutto il pubblico, che a Siracusa è
quanto mai eterogeneo. Ha concluso Salvo: «Tutti gli artisti impegnati qui
stanno portando la loro forza, la loro dedizione, la loro fatica, perché
appunto si prova tantissime ore, di notte, al Teatro Greco, con il massimo
impegno»
(http://www.teatro.org/rubriche/interviste/daniele_salvo_dirige_l_edipo_re_di_sofocle_per_la_stagione_2013_dell_inda_36791).
Gerardo Marrone, nel suo articolo “Edipo Re torna a far vibrare il teatro greco di Siracusa”, così
scrive: «L'inesorabile onnipotenza del Fato, la forza devastante della verità,
la precarietà della condizione umana. La Tragedia greca, insomma. O quella “summa”
scritta da Sofocle, l'Edipo Re, che ieri è tornata a far vibrare la platea del
teatro antico di Siracusa. […] Allestimento coinvolgente, dai ritmi sempre
elevati e dall'imponente scenografia, questo Edipo Re per la regia di Daniele
Salvo. […] Potente la prova di Ugo Pagliai che è il vecchio Tiresia, efficace
il protagonista Daniele Pecci, suggestiva Melania Giglio nello Spettro della
Sfinge» (http://www.gds.it/gds/multimedia/home/gdsid/260537/.
L'Edipo re, ritenuta
il capolavoro di Sofocle, ebbe la sua prima assoluta nel 430-420 a.C. circa,
presso il Teatro di Dioniso in Atene. La tragedia è inserita nel “ciclo tebano”
(la storia mitologica della città di Tebe) e la ben nota è la drammatica
vicenda, come ben noto è l'amaro destino di Edipo, figlio del sovrano di Tebe,
Laio, e di Giocasta, destinato dal fato a uccidere il padre e a sposare la
madre. Allertato da un oracolo, Laio decide la morte del figlio neonato ma un
servo lo salva, abbandonandolo sul monte Citerone, ove sarà nutrito da un
pastore e adottato dal re di Corinto. Dopo molte prove il destino si realizza
e, senza saperlo, Edipo uccide il padre sconosciuto per via e sposa Giocasta,
rendendola madre di quattro figli. Con orrore Edipo scoprirà, in un sol giorno,
di avere ucciso inconsapevolmente il padre e di averne sposata la vedova (che,
sconvolta, si uccide per il dolore, il rimorso e la vergogna). Tramortito dalla
rivelazione, Edipo si acceca e, accettando l'esilio, si muove verso Colono lungo
un tragico percorso di espiazione (i brani della tragedia da me citati sono
tratti dalla versione di Ettore Romagnoli, ved. http://www.filosofico.net/edipresofocle42.htm).
La scena si svolge sulla piazza dinanzi alla reggia d'Edipo
mentre una grande moltitudine di gente, bambini, giovani e vecchi, si aduna dinanzi
alla reggia, portando rami avvolti da bende di lana e lamentandosi. Sulla
soglia della reggia appare Edipo, che è divenuto l'amato re Tebe perché ha
saputo rispondere correttamente all’enigma della Sfinge, liberando la città dal
terribile mostro saggio ma devastante. Nel Prologo Edipo si trova a dover
combattere una tremenda pestilenza che affligge Tebe: «[…] / perché veniste?
Per pregare? O quale / terror vi spinse? Ad ogni modo io voglio / darvi
soccorso: se di tante preci / non sentissi pietà, non avrei cuore!». Il
Sacerdote così lo informa: «[…] La città, / come tu stesso ben lo vedi, troppo
/ è già sbattuta dai marosi, e il capo / più non riesce a sollevar dal baratro
/ del sanguinoso turbine: distrutti / i frutti della terra ancor nei calici: / distrutti
i bovi delle mandrie, e i parti / delle donne, che a luce più non giungono: / e
il dio che fuoco vibra, l'infestissima / peste, su Tebe incombe, e la tormenta,
/ e dei Cadmèi vuote le case rende: / sì ch'Ade negro, d'ululi e di pianti / opulento
diviene. […] / […] Or, tutti vòlti, / Èdipo, a te, che sommo sei nell'animo / di
tutti, or ti preghiamo: per noi trova / qualche soccorso: […] / […] Or via,
sommo fra gli uomini, / rimetti in piedi Tebe! A lei provvedi!». Edipo, che
soffre al pari del suo popolo e che ha
versato molte lacrime, ha mandato Creonte, il fratello della regina Giocasta, a
interrogare l’oracolo di Delfi sulle cause di quell'orrenda epidemia: «[…] mio
cognato, il figlio / di Menecèo, Creonte all'are pitiche / mandai d'Apollo, a
chiedere che debba / io fare o dire a salvazion di Tebe. / […]». Al suo
ritorno, Creonte informa che la città è stata contaminata per l'uccisione di
Laio, il precedente re di Tebe, rimasta invendicata ed Edipo si scaglia
minaccioso contro l'ignoto responsabile: «Il bando; o riscattar sangue con
sangue: / ché sangue sparso la città travaglia. / […] / Apollo chiaramente ora
c'impone / gli assassini punir, quali che siano.». Nel tempo in cui Tebe era sotto
l'incubo della Sfinge, Laio era voluto andare a Delfi ma lungo la strada era
stato assalito da briganti; il suo assassino vive però ancora nella città, la
cui prosperità non è più possibile se non identificando ed esiliando il
colpevole. Edipo si dice pronto a tutto per ritrovare l'assassino di Laio.
Ventiquattro vegliardi entrano con lenti passi ritmici e
misurati nel canto, e si collocano intorno all'altare di Diòniso. Il Coro degli
anziani tebani, canta una preghiera agli dei perché intervengano per proteggere
la città. Durante le ultime parole del Coro, Edipo esce dalla reggia, esigendo che
chi sa parli: «Fra i cittadin di Tebe ultimo io giunto, / a voi tutti, o
Cadmèi, questo proclamo. / Chi di voi sa da quale man fu spento / Laio, il
figlio di Làbdaco, gl'impongo, / che tutto a me disveli. E se l'accusa / contro
se stesso alcun per tema asconde, /
sappia che nessun male ei patirà, / e illeso andrà da questo suolo in
bando.». Proclama un per chi ha ucciso Laio e per chi protegga o nasconda
l'assassino un bando d'esilio: «Questo a voi tutti che facciate impongo, / per
me stesso, pel Dio, per questa terra / senza più frutti, senza Iddii perduta. /
[…] / […] Ed or, poi che le redini / ch'ei già reggeva, io reggo, ed il suo
letto / posseggo, e la sua donna; e i figli miei / comuni avrei coi figli suoi,
concetti / da un medesimo grembo, ove il suo talamo / fosse stato fecondo - ma
su lui / balzò la mala sorte: - ora per lui / come pel padre mio combatterò, / ogni
via correrò, tentando cogliere / chi le man tinse nel sangue di Laio.».
Il Coro suggerisce al re d'interrogare Tiresia: «So che
Tiresia ciò che vede Apollo / anch'egli vede: oh sire, chi l'interroghi, / ben
chiaro può saper tutto ch'ei brami.». Ed entra Tiresia, vecchissimo e cieco,
guidato per mano da un bimbo; a lui il re vuol chiedere di svelare l'identità
dell’assassino. Egli però si rifiuta di rispondere, perché ritiene più saggio
tacere per non provocare altre terribili sventure: «Ahi, ahi! Sapere quanto è
duro, quando / a chi sa nulla giova! Io ben sapevo, / ed obliai. Venir qui non
dovevo. / […] / Lasciami andare! Ci sarà più facile / compier così tu ed io la
nostra sorte. / […] / E tutti siete dissennati! I mali / miei non dirò: ché i
tuoi svelar dovrei! / […] / Né te né me crucciare voglio. A che / dimandi
invano? Io nulla ti dirò. / […] / Oltre non parlerò! Sappilo, e accenditi, /
[…] / sin che tu vuoi, dell'ira più selvaggia.». . Edipo si adira e ordina a
Tiresia di parlare. ma il vecchio si rifiuta, facendo aumentare la collera del
re. A questo punto Tiresia accusa Edipo di essere l’assassino di Laio: «Davvero? Io d'obbedir t'intimo al bando / ch'hai
promulgato, e che da questo giorno / non rivolga parola a me né a questi: / ché
tu di Tebe sei l'empia sozzura.». Il re è indignato oltremisura e gli dice che
non potrà salvarsi da quell'accusa ma Tiresia gli risponde: « Salvo già sono! È
la mia forza il vero. / […] / Dico che tu sei l'uccisor che cerchi. / […] / Coi
tuoi più cari in turpe intimità / vivi, e nol sai: né il male ove sei scorgi.».
Indignato Edipo accusa Tiresia: «cieco di mente sei, d'occhi
e d'orecchi / […] / Tutta una notte è la tua vita: e me / danneggiare non puoi,
né alcun veggente.». Egli comincia a sospettare che Creonte e Tiresia abbiano
ordito una trama diabolica per buttarlo via dal trono e che Creonte
occultamente manovri Tiresia: «questo stregone, cucitor d'insidie, / ciurmador
frodolento, che ben vede / solo nel lucro, e che nell'arte è cieco!». Tiresia
se ne va, profetizzando che alla fine di quello stesso giorno il colpevole verrà scoperto e che come
un mendicante cieco si allontanerà in esilio verso una terra straniera: «E poi
che tu vituperi la mia / cecità, parlerò. Tu aperti hai gli occhi, / eppur non
vedi in che sciagure sei, / né dove abiti, né chi sono quelli / che vivono con
te. Dimmi: sai forse / da chi sei nato? Dei tuoi cari, o vivi / sopra la terra,
o già sotterra, tu / sei l'inimico, e non lo sai. / […] / […] Ora parto, e ti
dico: / l'uom che cercando vai, spacciando bandi / per la morte di Laio, e minacciando,
/ quell'uom è qui: metèco e forestiero, / ora si crede; e invece si vedrà / ch'egli
è tebano: né di tal ventura / s'allegrerà: ché, da veggente fatto / cieco, da
ricco povero, tentando / il suolo col bordone, andrà fuggiasco / sovra terra
straniera; e si vedrà / che vive insiem coi figli suoi, fratello / e padre,
insieme con la donna ond'egli / nacque, figliuolo e sposo; e ch'è del padre / suo
l'assassino, e nel suo solco semina.».
Tiresia si allontana ed Edipo rientra nella reggia. Il Coro prima
immagina la fuga dell'«ignoto assassino», inseguito sia dagli uomini sia da Giove
e dalle Parche, ma poi decide di non ascoltare le parole di Tiresia, poiché non
è infallibile nemmeno il grande indovino. Si presenta Creonte, che ha saputo
che Edipo lo crede responsabile di una cospirazione, e appare Edipo che lo
accusa apertamente e con toni sempre più violenti: Creonte si trovava a Tebe
con Tiresia, quando Laio era stato ucciso: «Immaginavi tu ch'io non vedessi / strisciar
la frode, o, vistala, indugiassi / a rintuzzarla? Ah! Ma fu pazza impresa / la
tua, senza partito e senza amici / dar la caccia al poter, che si conquista / sol
con molte dovizie e molta gente.». Con pacatezza Creonte gli risponde di non
aver avuto mai interesse al trono: «Questo prima considera. Chi v'è / che
comandare fra i terrori elegga, / piuttosto che dormir sonni tranquilli, / se
uguale impero aver potrà? Non io, / né alcuno ch'abbia senno, eleggerà / esser
sovrano, invece che potere / ciò che un sovrano può. Tutto or da te, / senza
terrore, io ciò che bramo ottengo: / qualora io fossi re, contro mia voglia / dovrei
pur fare molte cose. E come / chiamarmi re, più dolce mi sarebbe / che poter
senza crucci? Oh tanto folle / non sono ancor, ch'io cerchi altro che il bene /
con l'utile congiunto. Ora da tutti / son prediletto; ognuno a me s'inchina; / chi
bisogno ha di te, blandisce me: / ché per essi impetrar tutto posso io. / Il
mio stato col tuo perché mutare? / […] / […] Ma prima / ch'io mi difenda, non
lanciar l'accusa / in causa ambigua; ché non è giustizia / reputar buoni i
tristi, e tristi i buoni. / E gittar via l'amico fido, è come / gittar la
propria, la diletta vita. / Col tempo d'ogni cosa avrai certezza: / ché solo il
tempo saggia l'onestà: / a conoscere il tristo un giorno basta.».
A quel punto giunge dalla casa Giocasta, sorella di Creonte
e vedova di Laio, ora moglie di Edipo, per mezzo della quale forse è possibile
comporre lite: «O sciagurati, a che questa contesa / di parole, demente? E non
v'è scorno, / mentre su Tebe tal malore incombe, / guai privati eccitare? Or
tu, rientra: / e tu, Creonte, alla tua casa torna: / non rendete gigante un mal
da nulla!». Giocasta invita il marito a non dare ascolto né a oracoli né a indovini:
anche Laio aveva ricevuto una profezia che gli preconizzava l'uccisione da
parte del figlio mentre era stato assassinato da alcuni banditi sulla strada
per Delfi, là dove si incontravano tre strade: «[…] Un giorno, / giunse a Laio
un oracolo, non dico / d'Apollo stesso, ma dei suoi ministri, / ch'era destino
a lui spento morire / per man del figlio che da me nascesse. / E invece, lui,
come ognun sa, l'uccisero / in un trivio i ladroni; ed il fanciullo, / non
corsero tre dì dalla sua nascita, / e, avvinghiatigli i piedi alle giunture, /
per mano d'altri, il padre lo gittò / su monte impervio. Ed Apollo non fece / né
che quello uccisor del padre fosse, / né che dal figlio suo ciò che temeva / Laio
patisse: e ciò pur decretavano / le profetiche voci. […]».
Nel sentir le parole di Giocasta, Edipo si sgomenta e chiede
di poter sentire il testimone dell’omicidio di Laio, un servo che era riuscito
a mettersi in salvo che adesso vive lontano da Tebe, pascendo le greggi nei
campi. Alla regina, che chiede al marito la causa di quel turbamento, Edipo
risponde raccontando che, quando era il principe ereditario di Corinto (figlio
del re Polibo), l’oracolo di Delfi gli aveva predetto «miseri, atroci, orridi
eventi»: «ch'io giacerei con mia madre, e darei / la vita ad una stirpe
intollerabile / ad ogni gente; e diverrei del padre / ond'io m'ebbi la vita,
l'assassino». Per evitare che la profezia potesse avverarsi con l'uccisione di
Polibo, sconvolto, Edipo era fuggito lontano dalla terra corinzia ed era giunto
a un trivio, sulla strada tra Delfi e Tebe: «Così, peregrinando, alla contrada
/ giunsi, ove dici che fu spento il re.». Lì aveva litigato con un uomo che lo
aveva preso a randellate, uccidendolo. Temeva che quell'uomo fosse Laio: «[…] Or,
se Laio / e lo straniero son tutt'uno, chi / più misero di me, più inviso ai
Numi? / Niuno dei cittadini e niun degli ospiti / può ricevermi in casa o
favellarmi, / ma mi deve scacciare. E lo
scongiuro, / io, non già altri, contro me lanciai: / io, con le mani mie che gli diêr morte, / il
letto dell'ucciso ora contamino. / Ah, ch'io non vegga, oh reverenza somma / dei
Numi, ah, ch'io non vegga un giorno simile! / Via sparisca dal mondo, anzi
ch'io scopra / di sciagura su me macchia sì turpe!».
Il Corifeo invita Edipo a non arrivare a conclusioni
affrettate, sentendo prima il pastore, testimone dell’omicidio: s'egli parla di
molti ladroni e non di un solo uomo, Edipo sarà salvo! Edipo e Giocasta
rientrano nella reggia e il Coro appare turbato dall'incredulità di Giocasta dinanzi
agli oracoli e si lancia in un ammonimento contro coloro che non venerano gli
dei e che pretendono di violare le leggi eterne degli dei: là ove gli uomini
non riconoscono più la giustizia divina e cedono alla tracotanza, là si nasconde
la tirannide del despota. Dalla reggia esce Giocasta, seguita dalle sue ancelle
che recano fiori e cassette d'aromi da ardere sull'ara per Apollo: «Tu a noi
matura qualche esito lieto, / ché noi, vedendo sbigottito l'uomo / che la nave
reggea, tutti tremiamo.».
Giunge, intanto il messo da Corinto, un vecchio pastore, che
si rivolge ai vecchioni del Coro, informandoli che Edipo diverrà re, perché Polibo
è morto consunto dalla malattia («ché lo serra entro la tomba morte»). Giocasta
manda l'ancella ad avvertire Edipo della notizia: «Ancella, e non t'affretti?
Entra, e la nuova / reca al signore! - Oracoli del Nume, / dove siete? Da lungo
tempo Edipo / quell'uom fuggiva trepidando sempre / che ucciderlo dovesse; e
quegli or muore / naturalmente, e non per mano sua!». L'ancella etra in casa ed
esce Edipo che si consola, apprendendo che il padre non è morto per mano sua: «Veh,
veh, Giocasta! A che più la fatidica / fiamma di Pito consultare, e i gridi / degli
uccelli, onde a me venne il presagio / che ucciderei mio padre! E questi or,
morto / giace sotterra; ed io son qui; né arma / ho toccata - se pur non l'avrà
spento / brama di me: ché per ciò solo, spento / da me dirlo potresti. Ed ora
Pòlibo / giace vicino all'Ade, ed i
responsi / scemi d'ogni valore ha seco addotti.». Per quel che riguarda la
profezia su sua madre («le nozze materne» con Mèrope, la consorte di Pòlibo), il
messo rassicura Edipo, dicendogli che trema a torto perché i sovrani di Corinto
non erano i suoi genitori naturali; infatti, erano senza figli ed Edipo è stato
adottato, e il messo può testimoniarlo con certezza perché - pastore sul monte
Citerone - proprio lui aveva ricevuto Edipo neonato da un servo di Laio e lo
aveva portato a Corinto. A questo punto Edipo sente vicina la scoperta delle sue
origini e convoca il servo di Laio, un mandriano che è lo stesso che avrebbe
potuto testimoniare sull'assassinio di Laio. Giocasta, che ha ormai compreso tutta
la verità, supplica Edipo di lasciar stare le sue ricerche ma non viene
ascoltata: «Non cercar più, no, per gli Dei, se cara / t'è la tua vita! Il mal
ch'io soffro basti! / […] / Dammi ascolto, ti prego! Non far ciò! / […] / So
quel che dico! Il meglio io ti consiglio. / […] / Ah! chi tu sei, mai tu non
sappia, o misero! / […] / Ah, sciagurato, sciagurato! Posso / dirti questo
soltanto, e nulla più.». La donna esce disperata. Edipo desidera invece
conoscere le sue origini: «Sarà quel che sarà! Ma ben voglio io / conoscere il
mio sangue: e sia pur vile. / Essa, che, vera donna, è tutto orgoglio, / arrossirà
della mia bassa nascita: / io non m'adonterò: figlio mi reputo / della Fortuna,
che mi fu propizia.». Rientra nella reggia.
Il Coro è pieno d'esultanza perché Edipo sembra ormai vicino
a conoscere le proprie origini, e celebra il monte Citerone «quale madre d'Edipo,
quale nutrice e patria». Intanto arriva il vecchio mandriano, servo che «era,
quanto altri mai fedele a Laio», atteso da Edipo con grande impazienza. Il re
lo mette a confronto con il messo venuto da Corinto e lo tempesta di domande;
il messo rammenta al mandriano che gli aveva dato un bimbo perché l'allevasse come
suo e, accennando Edipo, osserva: «Questi è colui che allora era bambino». Il
servo tergiversa e intima al messo di stare zitto ma ormai Edipo vuol sapere tutta
la verità e lo pressa e lo minaccia. Il servo conferma allora di avere avuto il
pargolo, figlio di Laio, dalla madre stessa con l'ordine del padre di ucciderlo,
in quanto - in accordo con una profezia - il figlio avrebbe ucciso il padre (la
stessa Giocasta avrebbe potuto confermarglielo). Per pietà il servo, però, non
l’aveva ucciso e l’aveva invece consegnato al pastore che l’aveva portato a
Corinto: «Per la pietà, mio re, ché ti portasse / in altra terra, nella terra
sua! / E a più gran male ei ti salvò: ché misero / sei, se colui che questo
dice, sei!». A questo punto l’intera vicenda è chiara e, pieno d'orrore, Edipo fugge
entro la reggia urlando: «Ahimè, ahimè! Tutto è già chiaro! Luce! / In te
m'affisi per l'ultima volta! / Ch'io da chi non dovea nacqui, convivo / con chi
non devo, e ucciso ho il padre mio!».
Arriva il Coro degli anziani tebani che compiangono la triste
sorte di Edipo, re stimato ma autore involontario di atti tremendi e orribili: «Or,
chi di lui più misero? / Chi s'ebbe ugual retaggio, / nel tramutar del vivere,
/ di cordoglio selvaggio? / Edipo, inclito principe, / a qual porto fatale!, / a
un letto nuzïale, / padre e figlio, sei giunto.». Non vorrebbero mai averlo
conosciuto, tanto è spaventosa la pietà che suscita in loro la sua tragica vicenda:
«Ahimè, figlio di Laio, / mai non t'avessi visto!».
Dalla reggia esce intanto un servo, che mostra i segni del
più vivo terrore e che si rivolge al Coro, annunciando che Giocasta si è
impiccata: «Giocasta, sangue dei re nostri, è spenta! / […] / Ella si uccise.
Ma di ciò che avvenne / manca il più crudo: ché la vista manca. / Pur, quanto
la memoria ancor mi vale, / i tormenti saprai di quella misera.». Dopo aver
visto ciò, Edipo, schiantato, s'era accecato con la fibbia della sua veste: «[…]
Ed ei, come la scòrse, / con un orrendo mugolo, meschino, / calò la salma appesa.
E poi che a terra / giacque, vedemmo un orrido spettacolo. / Le fibbie d'oro
onde sostegno avevano / le vesti della donna, svelse, ed alte / le sollevò su
le pupille, e in queste / le conficcò, perché, disse, mai più / non vedessero i
mali ond'ei fu reo, / né quelli che patì, ma d'ora innanzi, / solo nel buio in
quelli si affiggessero / che non dovean veder, né conoscessero / chi conoscer
bramavano. Così / impreca, ed una volta, e più, solleva / le palpebre, e le
fora; e le pupille / sanguinolente bagnano le guance: / […] / Ahi! Fu l'antica
/ vera felicità; ma ora, gemiti, / morte, sciagura, vituperio, cerca / quanti
nomi ha sciagura, e niuno manca.». Compare allora Edipo accecato, condotto per
mano da un servo e accompagnato dalla lamentazione del Coro che racconta come
abbia compiuto quell'atto perché non gli è dolce vedere nulla, dato che ormai è
un uomo maledetto e aborrito dagli dei. Edipo si lagna di non esser morto
bambino e maledice: «Muoia chi, sciolti dai selvaggi vincoli / i piedi miei, me
trasse a salvamento, / e mi raccolse, ahimè, non pel mio bene! / Se quel giorno
ero spento, / né a me né ai cari causa sarei di tante pene. / […] / Né
l'uccisor sarei / del padre, e non direbbero / me di colei che madre ebbi,
consorte.». Arriva adesso Creonte, tenendo per mano le due figliuole d'Edipo, Antigone
ed Ismene, e - dinanzi alla disperazione di Edipo - lo invita a riporre la sua fiducia
nel dio Apollo. Edipo abbraccia le sue bambine, piangendo sulla loro sorte
infelice in quanto progenie di nozze incestuose: «Figlie mie, dove siete? Oh,
qui venite, / a queste mie mani
fraterne: […] / […] / E per voi piango: e guardar non vi so, / pensando il
resto dell'amara vita / che trascorrer fra gli uomini dovrete. / […] / Quale
sciagura manca? Il padre vostro / fu del padre uccisore, il campo arò / ov'ei
fu seminato, e n'ebbe figlie / dal grembo istesso ond'ei vide la luce. / Tale
obbrobrio udirete. E chi sposarvi / vorrà? Nessuno, oh figlie! E senza nozze / e
senza figli vi dovrete struggere. / […] / Or questo voto io fo per voi.
Dovunque / conduciate la vita, oh, miglior sorte / a voi che al vostro genitore
arrida.». Edipo chiede infine a Creonte di volerlo esiliare: «Presto da questa
terra via discacciami, / dove niun sia che a me rivolga mente. / […] / Era già
chiaro il suo responso: togliere / di mezzo me, l'impuro, il parricida. / […] /
Via di qui scacciami.». Edipo lascia le figlie e Creonte lo conduce entro la
reggia. E la tragedia finisce con il Coro che abbandona l'orchestra piangendo il
destino di Edipo: «Or, mirando questo giorno luttuoso, non far stima / che
beato sia veruno degli effimeri, se prima / scevro d'ogni orrido male - non sia
giunto al dì fatale.».
Il Fato cieco e inesorabile ha rivelato l'estrema fragilità
dell’esperienza umana ed Edipo è passato dall'apice dell'amore del suo popolo e
del potere al fondo dell'abiezione più bassa, nonostante abbia fatto tutto il
possibile per contrastare la profezia, abbandonando gli amati genitori e cambiando
vita e città. E questo conflitto tra predestinazione (e volontà divina) e tra libertà
(e responsabilità personale), quest'antitesi magia-tabù ancestrali e razionalità-intelligenza
rende più amara la tragedia! Infatti a nulla servono tutte le precauzioni di
Edipo e il passaggio dalla felicità all'infelicità avviene inevitabilmente,
senza malvagità ma per errore, anche se può cogliersi in Edipo una superba
tracotanza nel voler arrivare alla conoscenza, al di là di certi limiti
invalicabili. Ed Edipo si acceca perché Tiresia, attraverso la sua cecità, riusciva
a vedere il Vero mentre Edipo, attraverso i suoi occhi, era riuscito a vedere soltanto
illusioni e falsità.
Questa tragedia è servita allo psicoanalista Sigmund Freud per spiegare
il complesso di Edipo, cioè la pulsione di possesso e sessuale del bambino per
la madre e l'inconscio desiderio di morte e di sostituzione nei confronti del
padre.
E' stato uno spettacolo splendido
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