Paolo e Francesca Dante e Beatrice
Paradiso di Eimuntas Nekrošius
Dante Alighieri ha scritto altre indimenticabili parole d’amore eterno nell’Inferno, nel brano dedicato a Paolo e Francesca. Con i suoi versi, Dante nobilitò un fosco fatto di cronaca nera svoltosi nel 1285: Francesca, figlia del signore di Ravenna Guido da Polenta il Vecchio, era stata data in sposa a Gian Giotto Malatesta (un uomo brutto e repellente), avendone anche una figlia. Francesca s’innamorò però del fratello del marito (elegante e bello ma sposato e padre di due figli) e venne colta in flagrante adulterio dal marito che la uccise. La mitologia romantica ha poi trasformato Francesca nell’emblema della donna che si perde, travolta dall’amore fatale: forza indomita cui non si può resistere.
Dante Alighieri ha scritto altre indimenticabili parole d’amore eterno nell’Inferno, nel brano dedicato a Paolo e Francesca. Con i suoi versi, Dante nobilitò un fosco fatto di cronaca nera svoltosi nel 1285: Francesca, figlia del signore di Ravenna Guido da Polenta il Vecchio, era stata data in sposa a Gian Giotto Malatesta (un uomo brutto e repellente), avendone anche una figlia. Francesca s’innamorò però del fratello del marito (elegante e bello ma sposato e padre di due figli) e venne colta in flagrante adulterio dal marito che la uccise. La mitologia romantica ha poi trasformato Francesca nell’emblema della donna che si perde, travolta dall’amore fatale: forza indomita cui non si può resistere.
Nel Canto V Paolo e Francesca, inclusi nella schiera dei
“peccatori carnali”, sono costretti a essere trascinati da un furioso vento di
tempesta nell’oscurità dell’Inferno: «[…] Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende
/ prese costui de la bella persona / che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.
/ Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, /
che, come vedi, ancor non m’abbandona. / Amor condusse noi ad una morte. /
Caina (luogo in cui erano confinati i
traditori dei parenti) attende chi a vita ci spense.”. / Queste parole da
lor ci fuor porte. / […] / Ma dimmi: al
tempo de’ dolci sospiri, / a che e come concedette amore / che conosceste i
dubbiosi disiri? ”. / E quella a me: “Nessun maggior dolore / che ricordarsi
del tempo felice / ne la miseria; e ciò sa ’l tuo dottore. / Ma s’a conoscer la
prima radice / del nostro amor tu hai cotanto affetto, / dirò come colui che
piange e dice. / Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come
amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto. / Per più fiate li
occhi ci sospinse / quella lettura, e scolorocci il viso; / ma solo un punto fu
quel che ci vinse. / Quando leggemmo il disiato riso / esser basciato da
cotanto amante, / questi, che mai da me non fia diviso, / la bocca mi basciò
tutto tremante. / Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse: / quel giorno più non
vi leggemmo avante” / Mentre che l’uno spirto questo disse, / l’altro piangea;
sì che di pietade / io venni men così com’io morisse. / E caddi come corpo
morto cade.».
Nel
Canto II dell’Inferno, così scrive Dante con riferimento a Beatrice: «“[…] / I’ son Beatrice che ti faccio
andare; / vegno del loco ove tornar disio; / amor mi mosse, che mi fa parlare.
/ Quando sarò dinanzi al segnor mio, / di te mi loderò sovente a lui”. / Tacette allora, e poi comincia’ io: / “O donna di
virtù, sola per cui / l’umana spezie eccede ogne contento / di quel ciel c’ha
minor li cerchi sui, / tanto m’aggrada il tuo comandamento, / che l’ubidir, se
già fosse, m’è tardi; / più non t’è uo’ ch’aprirmi il tuo talento. / […]”.».
Nel
canto XXXI del Paradiso, Dante trova
Santo Bernardo e per lui rivede Beatrice in tutta la sua gloria, e così scrive: «“O donna in cui la mia speranza vige, / e che soffristi per la mia salute / in
inferno lasciar le tue vestige, / di tante cose quant’i’ ho vedute, / dal tuo
podere e da la tua bontate / riconosco la grazia e la virtute. / Tu m’hai di
servo tratto a libertate / per tutte quelle vie, per tutt’i modi / che di ciò
fare avei la potestate. / La tua magnificenza in me custodi, / sì che l’anima
mia, che fatt’ hai sana, / piacente a te dal corpo si disnodi”.».
A
proposito dell’amore nell’era medievale (e quindi nel Paradiso), nel suo
articolo giornalistico L’amor sacro e
profano, Piero Citati (La Repubblica del 28/1/2006) così scrive:
«Forse, nel cristianesimo di oggi, “eros” ha perduto la forza, che possedeva
nel Medioevo. Platone ci ha abbandonato. Come potremmo immaginare, oggi, un
libro come il “Paradiso”, con quella immensa forza erotica, quella gioia,
quella paurosa e lucidissima ubriachezza, quella luce nella luce, che si
rispecchia, si riflette, trova sempre nuovi echi, variazioni, modulazioni e
riverberi? Al Cristianesimo di oggi è rimasto il territorio di “agàpe”, la
virtù di San Paolo.».
Dante Aligieri (1265–1321) non è stato un
uomo felice: ha vissuto una sfilza interminabile di lutti, amarezze e lunghi
periodi di esilio e solitudine. Quando nacque nel 1265 a Firenze, comune
florido ma turbolento, l’Europa e l’Italia godevano un grande benessere ma si
preparavano notevoli cambiamenti per la società e la cultura. Il padre
Alighiero degli Alighieri, appartenente a una famiglia guelfa della piccola
nobiltà in declino, aveva sposato Bella che morì nel 1275. Alighiero si risposò
con Lapa, che crebbe Dante insieme con gli altri suoi due figli Francesco e
Gaetana. Nel 1283 morì, purtroppo, anche Alighiero lasciando Dante orfano di
entrambi i genitori. Secondo l’usanza del tempo, a 12 anni, era stato promesso
a Gemma Donati (appartenente a un ramo cadetto di una potente famiglia di antica
nobiltà) che effettivamente sposò nel 1285 e dalla quale ebbe i tre figli
Pietro, Jacopo e Antonia. Fece buoni studi primari e superiori ma fu
fondamentalmente un autodidatta: come maestro di arte retorica ebbe Brunetto
Latini (1220–1294), notaio e uomo politico, che tentò di allargare la sua cultura
attraverso l’uso del volgare; come amico ebbe Guido Cavalcanti (1250–1300),
creatore di un vivace cenacolo di poeti chiamati «fedeli d’amore». Ben presto Dante fu noto per il suo «dir
parole d’amore in rima», ma l’amore al
quale s’ispirava non era più quello della poesia provenzale in lingua d’Oc né
quello della poesia siciliana degli autori vicini alla corte di Federico II,
bensì l’amore–devozione (espresso nella poesia del “dolce stil nuovo”) per la donna–angelo, mezzo di
comunicazione tra lo spirito dell’uomo e il mondo sovrannaturale, oltre che strumento
per aumentare la perfezione dell’anima dell’amato. Dopo la morte di Beatrice,
Dante si dedicò alla poesia “comico–realistica” (di cui fu
un grande interprete Cecco Angiolieri), che era tutto l’opposto della poesia
del “dolce stil nuovo”. Trasse
in seguito conforto dallo studio della Filosofia, ma amava anche il disegno, la
pittura e la musica. Si pensa che abbia vissuto altri amori oltre a quello per
Beatrice; si conoscono almeno due nomi di donne amate: la “Pargoletta” e “Pietra”, donna crudele e insensibile per la quale compose le cosiddette «rime
petrose».
Il grande poeta visse una forte esperienza
politica partecipando alle lotte comunali, schierato con la fazione dei Bianchi
in contrapposizione ai Neri, e nel 1301 fu condannato all’esilio perpetuo. «Legno sanza vela e sanza governo… peregrino,
quasi mendicando», fu costretto a «lo
scendere e il salir per l’altrui scale»
e a mangiare «lo pane altrui».
Fu a Forlì, Verona, Arezzo, Treviso, Padova e Lucca, forse a Parigi, ancora a
Verona, ove chiamò presso di sé i tre figli (mentre la moglie Gemma non lo
raggiunse, e i motivi non ci sono noti), e infine a Ravenna, che fu il rifugio
sereno nel quale visse in gran tranquillità l’ultimo periodo della sua vita,
dedicandosi alla composizione della Divina commedia, circondato da estimatori e discepoli. In
esilio, Dante non si comportò da vinto ma consapevole della decadenza del suo
tempo - nel rimpianto della moralità della Firenze antica - e spinto da un vivo
senso di verità e giustizia, tentò di proporre un ordine etico superiore che
rispondesse strettamente ai suoi ideali delusi. Pensava di aver trovato la via
da mostrare agli uomini per la loro redenzione collettiva con la Divina commedia, un poema allegorico di notevole altezza morale, di straordinaria
ricchezza dottrinaria e d’immensa poesia. L’opera fu scritta dopo il suo esilio,
tra il 1307 e gli ultimi anni di vita del poeta, e prese origine proprio da
questa aspirazione di un ordine superiore e da questo desiderio di perfezione e
felicità, per i quali lottò, polemizzò, esaltò i personaggi virtuosi che
aderirono alla sua etica mentre al contrario disprezzò con alterigia e trattò
con rigore i viziosi che ne erano lontani. Usò l’aldilà come un duro mezzo per
far giustizia di tutte le offese e le iniquità del mondo; nell’aldilà vi era però
Beatrice, simbolo ideale della Teologia, della sapienza delle cose di Dio.
Dante chiamò “Commedia” il suo poema, a causa del lieto fine e della
stesura in volgare; furono i posteri che – incantati dalla potenza dell’opera –
vi aggiunsero l’aggettivo “Divina”.
Le altre sue opere più importanti furono Le Rime (chiamate in seguito Canzoniere), che contenevano numerose poesie dedicate a Beatrice; il De
vulgari eloquentia, scritto in
latino e dedicato alla funzione dello scrittore nella formazione del linguaggio
di un popolo; e il Monarchia, che sosteneva l’autonomia dell’Impero sulla Chiesa quale fattore
indispensabile per la felicità dell’uomo. Andato a Venezia nel 1321 per una
missione diplomatica, durante il viaggio di ritorno per terre malsane si buscò
delle febbri violente che lo portarono a morte ad appena 56 anni. Venne sepolto
a Ravenna con grandi onori: sulla sua tomba fu posta una iscrizione che faceva
riferimento a «Firenze, madre di poco amore».
Con le sue moderne intuizioni e con la sua
visione etica del mondo, Dante Alighieri ebbe il merito di chiudere il Medioevo
e di preparare le basi per il Rinascimento.
Vorrei scrivere qualcosa sul Paradiso
rivisto da Eimuntas Nekrošius, che è una vera e propria trasfigurazione dell’esperienza
di quel viaggio che come ha detto lo stesso Dante è «a pochissimi destinato e a pochissimi
concesso». Il regista lituano
ha precisato di voler portare il paradiso sulla Terra, come a dire che
il viaggio nella trascendenza porta,
in effetti, sulla terra. Lo spettacolo scritto e diretto da Eimuntas Nekrosius
viene considerato «un
capolavoro assoluto, una bellezza non solo rara ma anche rarefatta, che toglie il
fiato» ed è stato prodotto dalla
Compagnia Teatrale Meno Fortas (coproduzione Comune di Vicenza e Fondazione
Teatro Comunale di Vicenza, in collaborazione con il Ministero della Cultura
Lituano e Aldo Miguel Grompone) ed è stato presentato al Teatro Olimpico di
Vicenza in prima mondiale il 21 settembre del 2012 (ved. http://www.nottola.it/tag/dante-alighieri/).
Ha scritto Nicola Arrigoni: «Cos’è
il Paradiso di Eimuntas Nekrošius? Non è una condizione, ma piuttosto un
percorso, non è né spazio né tempo, ma un itinerario, un viaggio terrestre che
fa dire a Beatrice come ultima battuta: “Il paradiso c’è” ed
infatti poco prima – nella drammaturgia poetica e visiva del regista lituano –
la stessa Beatrice dice al suo Dante: “Volgiti e ascolta; Ché non pur ne’ miei occhi è paradiso”. Non solo negli occhi di Beatrice, ma tutto
intorno, in terra è paradiso.». Arrigoni parla di «teatro ’primitivo’ di Eimuntas Nekrošius», riporta come il regista Nekrošius abbia
scritto: «Il Paradiso è dono non necessario nel presente, è aspirazione», e
osserva che, nell’affrontare il terzo capitolo della Commedia, Nekrošius «vola, vola con i suoi attori che entrano leggeri, sono angeli terrestri
di un’aspirazione alla perfezione che solo può dare l’amore, l’amore che unisce
Dante (Rolandas Kazlas) e Beatrice (Ieva Triskauskaité). Per aspirare al
Paradiso bisogna essere leggeri e lasciare le cose terrene…». E questo
volo sembra «incoraggiato dai gesti di
un coro di giovani attori e attrici che a tratti sembra voler spiccare il volo»
nella «pienezza d’amore». Arrigoni passa in rassegna «i simboli, ovvero i segni destinati a
raccontarci il senso inafferrabile dell’amore» e accenna a «una programmatica e poetica anticipazione
nel canto popolare lituano che apre lo spettacolo, canto dell’amante che
lontano dalla sua ragazza affida a una colomba cerulea lo struggimento del suo
cuore», a «una danza che attira
e respinge Dante e Beatrice» e a un «amore che di due corpi ne fa uno solo», e alla «carnalissima e paradisiaca poesia». Conclude Arrigoni: «Eimuntas Nekrošius fa dire alla sua
Beatrice: “Il Paradiso c’è” e non si può che convenire con lei e con il
regista: il paradiso c’è, è in terra e al Teatro Olimpico s’è mostrato e
palesato in tutta la sua poetica bellezza.» (“Teatro all’Olimpico Il Paradiso c’è secondo Nekrosius” di Nicola Arrigoni,
http://www.sipario.it/component/content/article/391-articoli-homepage/6054-paradiso-di-eimuntas-nekrosius-allolimpico-di-vicenza.html).
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