Rabindranath Tagore William Butler Yeats
Rabindranath Tagore (versione anglicizzata di Rabíndranáth
Thákhur) nacque a Calcutta il 6 maggio del 1861 e fu poeta, scrittore,
drammaturgo e filosofo ma anche pittore e musicista. Saggio pensatore e
compositore di «massime per una vita armoniosa», fu un mistico molto vicino a Dio.
Ho scelto le seguenti due poesie tra le sue più belle.
VI. L’uccello prigioniero nella gabbia
L’uccello prigioniero nella gabbia,
l’uccello libero nella foresta:
quando venne il tempo s’incontrarono,
questo era il decreto del destino.
L’uccello libero grida al compagno:
«Amore mio, voliamo nel bosco!»
L’uccello prigioniero gli sussurra:
«Vieni, viviamo entrambi nella gabbia».
Dice l’uccello libero: «Tra
sbarre,
dove c’è spazio per stendere l’ali?»
«Ahimè», grida l’uccello
nella gabbia,
«Non so dove appollaiarmi nel cielo».
L’uccello libero grida: «Amore
mio,
canta le canzoni delle foreste».
L’uccello in gabbia dice:
«Siedi al mio fianco,
t’insegnerò il linguaggio dei sapienti».
L’uccello libero grida: «No,
oh no!
I canti non si possono insegnare».
L’uccello nella gabbia dice: «Ahimè,
non conosco i canti delle foreste».
Il loro amore è intenso e struggente,
ma non possono mai volare assieme.
Attraverso le sbarre della gabbia
si guardano e si guardano, ma è vano
il loro desiderio di conoscersi.
Scuotono ansiosamente le ali e cantano:
«Vieni vicino a me, amore mio!».
L’uccello libero grida: «E’
impossibile,
temo le porte chiuse della gabbia».
L’uccello in gabbia sussurra: «Ahimè,
le mie ali sono morte e impotenti».
XVI. Le mani si stringono alle mani
Le mani si stringono alle mani
e gli occhi indugiano sugli occhi:
così comincia la storia
dei
nostri cuori.
è la notte
della luna di marzo;
nell’aria un dolce profumo di henna (pianta aromatica subtropicale);
il mio flauto giace per terra
e la tua ghirlanda di fiori
non
è terminata.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
Il tuo velo color zafferano
inebria i miei occhi, la corona
di gelsomini che tu intrecci
mi commuove come una lode.
è un gioco di
dare e trattenere,
di svelare e di nuovo velare;
di sorrisi e di timidezze,
e di dolci inutili lotte.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
Nessun mistero al di là del presente;
nessuna lotta per l’impossibile;
nessuna ombra dietro l’incanto;
nessuna ricerca nel buio.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
Non vaghiamo oltre le parole
per cercare l’eterno silenzio;
non leviamo le mani nel vuoto
per cose al di là della speranza.
Ciò che diamo e otteniamo ci basta.
La gioia non abbiamo schiacciata
per spremere il vino del dolore.
Questo amore fra me e te
è semplice come una canzone.
(Da: Il Giardiniere, in “Tagore - Poesie –
Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso, Newton Compton
Editori, Roma, 1971)
La prima poesia è veramente straordinaria e rappresenta in modo magico
ciò che accade quando un amore impossibile si svolge tra due esseri
profondamente diversi che pur s’amano: sono come due uccellini, uno aduso alla
libertà dei «canti della foresta» e uno dalle «ali morte e impotenti» ma abituato al «linguaggio
dei sapienti».
Questi due amanti «si guardano e si guardano,
ma è vano / il loro desiderio di conoscersi»; infatti, non possono amarsi e nonostante il loro
amore sia «intenso e struggente… non possono
mai volare assieme».
Nella
seconda poesia, Tagore canta invece la semplicità dell’amore che è come una canzone
che unisce i due amanti, le cui mani si stringono tra loro e i cui occhi
s’incontrano nello sguardo; tra loro si stabilisce l’eterno seducente gioco
amoroso del dare e del non dare, del mostrare e del nascondere, senza però
misteri particolari, senza dure lotte, senza ombre dietro l’incanto, senza
silenzi trascendentali e infine senza pretendere nulla che sia «al di là della speranza».
In un’altra
poesia, piena di desiderio amoroso, nella cornice di una Natura complice, Tagore
scrive: «Quando a notte vado sola al mio convegno d’amore, / gli uccelli
non cantano, il vento non soffia, / le case ai lati della strada sono
silenziose. / Sono i miei bracciali che risuonano a ogni passo, / e io sono
piena di vergogna. / […] / è il
mio cuore che batte selvaggiamente –
/ e non so come acquietarlo. / Quando il mio amore viene e si siede al mio
fianco, / quando il mio corpo trema e le palpebre s’abbassano, / la notte
s’oscura, il vento spegne la lampada, / e le nuvole stendono veli sopra le
stelle. / è il gioiello al mio
petto che brilla e risplende. / E non so come nasconderlo.» (IX). E l’amore sensuale e la Natura complice
ritornano in un’altra lirica: «Vieni come sei, non indugiare a farti
bella. / Se la treccia s’è sciolta dei capelli, / se la scriminatura non è dritta,
/ se i nastri del corsetto non sono allacciati, / non badarci. / Vieni come
sei, non indugiare a farti bella. / Vieni sull’erba con passi veloci. / […] /
Non vedi le nubi che coprono il cielo? / […] / Vieni come sei, non indugiare a
farti bella. / Se la ghirlanda non è stata intrecciata, che importa; / se il
braccialetto non è chiuso, lascia fare. / Il cielo è coperto di nuvole – è tardi. / Vieni come sei; non
indugiare a farti bella.» (XI).
Con un forte senso
religioso panteista, Tagore amava la Natura – e la «madre-Terra» con la sua «salutare polvere» – e per le sue splendide bellezze e per le
sue povere imperfezioni. In una poesia il poeta esaltato scriveva: «Dimmi
se questo è vero, amore mio, / dimmi se questo è tutto vero. / […] / è vero che le mie labbra son dolci /
come il boccio del primo amore? / […] / Che la terra, come un’arpa, vibra / di
canzoni al tocco dei miei piedi? / […] / E dimmi infine se è proprio vero / che
il mistero dell’infinito / è scritto sulla mia piccola fronte. / Dimmi, amor
mio, se tutto questo è vero.» (XXXII). Le liriche del poeta indiano vivono delle foglie che stormiscono sui
rami, del lieve rumore del torrente in movimento, delle stelle splendenti in
cielo, della notte oscura, delle raffiche di vento che spengono le lampade, del
cielo fosco e coperto di nubi, delle nuvole che stendono veli sulle stelle,
degli stormi delle gru che si levano in volo, ecc., ecc.
(Da: Il Giardiniere, in
“Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo Mancuso,
Newton Compton Editori, Roma, 1971)
Ma per
Tagore, l’unione suprema fra gli innamorati è un’esperienza così piena e così totalizzante
che non può che sublimarsi nell’amore per Dio. In conseguenza di ciò, in quel
che scrive, sacro e profano s’accavallano e s’intrecciano in una luce comune: «In questo mondo coloro che m’amano / cercano con tutti i
mezzi / di tenermi avvinti a loro. / Il tuo amore è più grande del loro, / eppure
mi lasci libero. / […]» (XXXII). Il poeta sentiva di essere vicino a Dio e agli
uomini per mezzo della sua poesia che è come un canto religioso: «Quando
mi comandi di cantare, il mio cuore / sembra scoppiare d’orgoglio / e fisso il
tuo volto / e le lacrime mi riempiono gli occhi. / […] / So che ti diletti del
mio canto, / che soltanto come cantore / posso presentarmi al tuo cospetto. /
Con l’ala distesa del mio canto / sfioro i tuoi piedi, che mai / avrei pensato
di poter sfiorare. / […]» (II). E il poeta conferma così le proprietà
della sua poesia–canto. «Ho ricevuto il mio invito / alla festa di questo mondo; /
la mia vita è stata benedetta. / I miei occhi hanno veduto, / le mie orecchie
hanno ascoltato. / […] / In questa festa
dovevo soltanto / suonare il mio strumento: / ho fatto come meglio potevo la
parte / che mi era stata assegnata. / […]» (XVI). E la sua lirica, semplice e
serena (monotona soltanto in apparenza), è come un canto d’amore che prende e
stringe nella rete della sua musica: «Attendo
soltanto l’amore / per abbandonarmi alfine / nelle sue mani. / […]» (XVII), versi che si ripetono come un
ritornello lungo tutta la poesia. Senza intenti didascalici o moralistici, il poeta mette a
disposizione di tutti il suo canto: «Sono qui a cantarti canzoni. / In
questa tua sala ho soltanto / un piccolo posto in un canto. / Nel tuo mondo non
ho / nessun lavoro da fare – / la mia inutile vita può soltanto / sgorgare in melodie
senza scopo. / […]» (XV); e a questo canto Tagore attribuisce un alto significato culturale
e una pratica finalità educativa. (Da: Gitanjali,
in “Tagore - Poesie – Gitanjali / Il Giardiniere”, traduzione di Girolamo
Mancuso, Newton Compton Editori, Roma, 1971)
Se il
lettore vuole dedicarsi alle poesie d’amore di Tagore (che sono soltanto una
piccola parte dei suoi scritti), potrebbe leggere Tagore - Poesie d’amore (A cura di G. Mancuso, Newton e Compton,
2005), oppure Tagore - Hai colorato
i miei pensieri e i miei sogni. Poesie per giovani innamorati (Salani Editore, Milano, 2006), nella collana “Poesie per giovani innamorati”.
Rabindranath
Tagore nacque a Calcutta da una delle famiglie bengalesi più aristocratiche e
colte: il padre era un filosofo e il leader di una setta religiosa di origine
induista mentre i fratelli furono tutti letterati o artisti. Sino ai
diciassette anni studiò in casa a Calcutta, vivendo in un ambiente ricco di
esperienze orientali ma anche aperto agli stimoli occidentali; andò quindi per
un anno in Inghilterra (a Londra) per imparare Legge, senza però completare gli
studi. Iniziò a scrivere prestissimo, e la sua opera è tanto estesa che alcuni
critici lo hanno paragonato per la vastità e la varietà della produzione e per la
lunghezza della vita letteraria al grande scrittore francese Victor Hugo
(1802-1885). Nel 1883 sposò Mrinalini Debi, amata di un affetto duraturo. Nel
1901 fondò l’Università internazionale di Visva-bharati (nata dal nucleo
costituito da una scuola sperimentale) che chiamò «Asilo di pace» e che sostenne con denaro proprio e con fondi procurati durante i suoi
numerosi viaggi per il mondo: il motto dell’Università era costituito dal
versetto sanscrito «Là dove tutto il mondo si
unisce in un nido».
Tra il 1902 e il 1907 visse tutta una lunga serie di lutti privati: perse la
moglie, due figli (tra i quali il primogenito), una cognata (morta suicida) alla
quale era legato da grande affetto, e il padre–maestro.
Tagore
scrisse circa duemila poesie, che spesso musicò e che raccolse in cinque volumi
di versi, tra i quali ricordiamo la raccolta di poesie religiose Offerta di Canti (Gitanjali) (1909–1912) e Il Giardiniere
(The Gardener).
Eseguì personali traduzioni inglesi dei suoi poemetti lirici che furono raccolti
in tre volumi non perfettamente corrispondenti ai tomi bengalesi, perché in
prosa e non in versi. Gitanjali fu letto e divulgato da William Butler Yeats
(poeta, drammaturgo, scrittore e mistico dublinese, 1865–1939), facendo
conoscere al mondo questo grande poeta indiano, gli fece guadagnare il premio
Nobel nel 1913 (il primo dato a una personalità asiatica). Nel 1915 re Giorgio
V lo nominò baronetto ma nel 1919 il poeta rinunciò al titolo nobiliare per
motivi politici.
Pubblicò
anche numerosi drammi teatrali simbolici e commedie sociali di grande
originalità, tra i quali Oleandri rossi (Rakta
Karabi),
il capolavoro nella sua carriera di drammaturgo composto nel 1923, in cui
celebra l’amore e critica la civiltà moderna in continua corsa verso un vuoto
arricchimento economico (un re avido d’oro costringe i suoi sudditi a un lavoro
brutale nelle miniere, distruggendo la Natura, ma la sua avidità sarà la sua
maledizione e la sua perdita); lo splendido testo, bellissimo da leggere, era
nobilitato dalla musica e il canto, dalla gestualità e dal movimento nello
spazio. Tagore scrisse anche diverse opere musicali sullo stile dei melodrammi
europei e alcuni balletti nei quali tentò di armonizzare Oriente e Occidente;
una sua composizione musicale è stata scelta come inno nazionale indiano (Bharata–bhagya–vidata).
Pubblicò
anche molte novelle, raccolte in più di otto volumi, e otto romanzi, tra i
quali sono da segnalare Gora (1910) e La casa e il mondo
(Ghare–Baire)
(1916), nei
quali realizzò una sorta di realismo simbolico, dando risalto lirico e
letterario alla lingua viva del suo popolo. Compose anche diversi diari di
viaggio (si mosse tantissimo in Europa, America e Asia) e numerosi saggi di
critica letteraria (tra i quali Investigazioni letterarie), di politica e di religione. Pubblicò anche
due autobiografie, una scritta in età adulta (Ricordi della mia vita) e una composta al termine
della sua vita (morì a Santiniketan il 7 agosto del 1941): esse hanno fatto
conoscere al mondo un uomo sensibile e ricco d’intensa religiosità che aveva vissuto
in uno struggente rimpianto nostalgico del divino e in un’ardente spiritualità
assetata di bellezza.
Tagore
seppe avvicinarsi anche ai problemi della povera gente («a coloro che non hanno compagni, tra i più poveri, i più
umili, e i perduti»).
In età avanzata si dedicò sia a tentativi scolastici innovativi sia a progetti
di riforma sociale, assumendo spesso una posizione contraria alle politiche
coloniali britanniche. Condivise con Gandhi, il «padre della patria», una viva amicizia e profondi ideali etico–politici, ritenendo
che l’Oriente dovesse guardare all’Occidente (che occupava posizioni più
avanzate) con riferimento al progresso sociale e alle libertà individuali,
senza dimenticare tuttavia le sue peculiari caratteristiche, rappresentate da
una maggiore serenità interiore e da una più intensa capacità meditativa.
D’altra parte, in quello stesso periodo, l’Occidente coloniale e materialista
riscopriva le filosofie e la cultura indiana, il sanscrito e la religiosità
asiatica. In India, Tagore ha raggiunto una fama immensa: fu nominato vice presidente
dell’Accademia delle Lettere del Bengala (1891), presidente del Congresso
Nazionale Indiano a Calcutta (1917) e presidente del Congresso Filosofico delle
Indie (1925). Anche in Europa fu molto stimato e amato per il senso religioso e
la profonda spiritualità, che seppe
propagandare grazie alle numerose letture dei suoi testi eseguite sia in patria
che all’estero, e grazie alle versioni inglesi dei suoi testi (da lui stesso
curate). Dal 1933, ormai in condizioni di cattiva salute, non si mosse più
dall’India dedicando tutte le sue poche forze all’amata Università
Internazionale.
Concludendo, Tagore ha dato
inizio alla letteratura bengalese (che già aveva prodotto alcuni generi a
cavallo tra sacro e profano, che prevedevano l’uso della mimica e della danza,
del canto e della musica), arricchendola di forme e aspetti letterari di gusto
europeo e divenendo l’icona spirituale e la voce morale più intensa e ascoltata
della cultura filosofica e della vita letteraria in Oriente: egli ha certamente
improntato di sé tutto il mondo sociale e intellettuale dell’India moderna.
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