giovedì 27 giugno 2013

Giacomo Vaccari e i grandi sceneggiati L'idiota, La pisana e Mastro Don Gesualdo


Giacomo Vaccari

Cinquant'anni addietro moriva Giacomo Vaccari, il grande e indimenticabile regista e sceneggiatore italiano del cinema e della mitica televisione degli anni che furono (fra i 50 e i 60). Nato a Chieti il 21 febbraio del 193, morì a Roma il 2 giugno del 1963 per un incidente stradale sulla via Cassia: aveva appena 32 anni!

Considerato a ragione da Aldo Grasso come «il più moderno e sensibile regista della televisione italiana» (Televisione, le garzantine, Garzanti editore, Milano 2008), si era diplomato all'Accademia Nazionale di Arte Drammatica e aveva esordito con la commedia Cabina televisiva di Peter Brook (1956), interpretata dal grande Arnoldo Foà, seguita da Ortensia se ne infischia (1957) con Nino Besozzi, Gaetano Marini e Pinuccia Nava, La regina Vittoria (1957) con Emma Gramatica, Fulvia Mammi e Antonio Pierfederici, Il tunnel (1958) con Diana Torrieri, Nicola Arigliano, Monica Vitti e Franco Volpi, Amore e pinguini (1958) con Bianca Toccafondi e Gianrico Tedeschi, La casa in ordine (1958) con Lilla Brignone, Ivo Garrani e Gianni Santuccio, Madame Sans Gene (1958) con Elsa Merlini, Paolo Carlini e Nino Pavese, Ma non lo siamo un poco tutti? (1958) con Tino Bianchi, Giuseppe Caldani e Silvia Monelli, Formiche (1958) con Renato De Carmine, Virna Lisi e Mario Valdemarin, La fine della signora Cheyney (1958) con Laura Adani, Tino Carraro e Gianni Santuccio, Lady Fredrick (1958) con Elsa Merlini, Paolo Carlini ed Ernesto Calindri, Il borghese gentiluomo (1959) di Molière (con Massimo De Francovich, Achille Millo, Antonio Pierfederici, Monica Vitti, Giulio Girola, Vittorio Caprioli, Ileana Ghione, Elio Pandolfi, Francesco Mulè, Valeria Valeri e Lilla Brignone), L'imbroglio (1959) tratto da Alberto Moravia con Stefano Svevo, Giuliana Lojodice e Lia Zoppelli, Dieci minuti di alibi (1959) con Armando Francioli, Nicoletta Rizzi e Roberto Villa, e Paparino (1959) con Umberto Melnati, Anna Menichetti e Mario Scaccia.

Contemporaneamente aveva girato diversi documentari, tra i quali Ritratto di una grande impresa (1959) per la presentazione del neonato gruppo ENI.

Raggiunse tuttavia fama e considerazione critica con i grandi sceneggiati TV L'idiota (1959), La Pisana (1960) e Mastro don Gesualdo (1964), finito di montare poco prima della sua morte prematura.

Molto prolifico nella prosa televisiva, aveva intanto girato anche I ragazzi (1959) con Evi Maltagliati, Alberto Lupo e Paolo Carlini, Andromaca (1960) con Elena Zareschi, Tino Carraro e Anna Miserocchi, Odette (1960) con Lydia Alfonsi, Achille Millo e Armando Francioli, L'accusatore pubblico (1960) con Turi Ferro e Ottorino Guerrini, Donne brutte (1961) con Paola Borboni, Roldano Lupi e Wandisa Guida, Giuditta (1961) con Tino Carraro, Elena Zareschi e Antonio Pierfederici, e Carolina o l'irragiungibile (1963) con Vivi Gioi, Armando Francioli e Orazio Orlando.

Uscirono postumi nel 1965: Letto matrimoniale con Lydia Alfonsi e Tino Carraro, e Corte marziale per l'ammutinamento del Caine con Arnoldo Foà, Vittorio Sanipoli e Gastone Moschin.

Si ricordano anche alcune regie televisive di opere liriche, tra le quali Don Giovanni (1960) con il cantante Mario Petri.

E passiamo adesso a considerare singolarmente i tre grandi capolavori di Vaccari, interpretati dai migliori attori dell'epoca.

L'idiota fu presentato il sabato nel settembre del 1959 in quattro puntate: era stato sceneggiato da Giorgio Albertazzi dal romanzo omonimo (1869) di Fëdor Michàjlovič Dostoevskij, e – scrive Aldo Grassi – «Un cast prestigioso e la regia di Vaccari decretano il successo della riduzione televisiva in quattro puntate del romanzo di Dostoevskij». Il cast era costituito da Giorgio Albertazzi (il principe Lev Nikolaevič Myškin, l'ultimo erede di una grande famiglia decaduta, un individuo spiritual­mente superiore ma indifeso nella sua fiducia verso il prossimo, nella sua generosità e bontà d'animo. e nella sua inesperienza della vita, responsabile anche di una certa debolezza del­la volontà e di un infantile immobilismo), Gian Maria Volonté (il violento e appassionato Parfën Rogožin), Anna Proclemer (l'affascinante e dolente Nastas'ja Filippovna Baraškova, amante di un ricco ca­pitalista) e Anna Maria Guarnieri (la figlia del generale Epančin, Aglaja, innamorata dal principe che la ricambia), contornati da Sergio Tofano, Gianni Santuccio, Antonio Pierfederici , Lina Volonghi, Ferruccio De Ceresa, Maria Fabbri, Gianna Giachetti e Franca Nuti, Come dire il meglio di una intera e indimenticabile generazione di attori, destinati a interpretare la società morbosa e senza pietà con la quale Myškin è costretto a misurarsi, che considera “idiota” il suo esser mite e innocen­te! Il buon principe Myškin, tuttavia, sceglie Nastas'ja sognando di strapparla al­­­l'inquietante Rogožin ma la ragazza – pur commossa e lusingata da quell'offerta, temendo di contaminare l'integra bon­­­­tà del principe e sen­tendosi indegna di lui – esita a lungo e poi decide di restare con il passionale Rogožin, consegnandosi al suo destino di morte. L'uomo, infatti, intuisce la pro­fondità del sentimento di Nastas'ja per il principe Myškin (amico–rivale) e, pazzo di gelosia, attenta prima alla vita del principe e poi uccide la donna nel pieno dei preparativi delle nozze tra Myškin e Nastas'ja. Scrive ancora Aldo Grassi: «Nonostante qualche contrazione dei complessi sviluppi della storia, la sceneggiatura di Albertazzi resta fedele al testo originario dando vita a un racconto televisivo chiaro e fluente. Efficacemente tratteggiati sono i personaggi e i ruoli, […], i protagonisti della tormentata vicenda nella quale la pietà resta l'unico conforto di fronte alla drammaticità dei rapporti umani.».

La Pisana fu presentata in sei puntate nell'ottobre del 1960, di domenica, per la sceneggiatura di Aldo Nicolaj e Marcello Sartarelli, tratto dal romanzo d'Ippolito Nievo “Le confessioni di un italiano” (1867) noto anche come “Confessioni di un ottuagenario”, con gli straordinari Lydia Alfonsi (la maliziosa, vanitosa e scaltra ma piena di dedizione Pisana) e Giulio Bosetti (Carlo Altoviti, patriota coinvolto nei moti liberali, innamorato della cugina Pisana), nel contesto di un "cast stellare" (costituito da Franco Graziosi, Ludovica Modugno, Pina Cei, Laura Adani, Franca Bettoia, Gian Maria Volonté, Umberto Orsini, Mario Scaccia, Marina Berti, Claudio Gora, Fulvia Mammi ed Elena Cotta). Lo sceneggiato, come il romanzo, narra le complesse vicende di Carlino, che – orfano dei genitori – vive nel castello di Fratta con gli zii che non l'amano; si occupano di lui il servo Martino «che bazzicava sempre per cucina come un vecchio cane da caccia» e la cuginetta Pisana, essere bizzarro e volubile, ambiguo e affascinante, capace di grandi generosità e di sinceri abbandoni ma anche di mostruoso egoismo. Sin da bambino, Carlino s'innamora perdutamente di Pisana e l'amerà per sempre, nonostante il matrimonio di lei con un anziano nobile veneziano. Quando, esule da Venezia, Carlino diviene cieco ed è ormai distrutto dai lavori forzati, Pisana accorre e lo cura con amore. La donna amata infine muore, e in Carlino il suo ricordo resterà incancellabile. Scrive Aldo Grassi: «La voce fuori campo del protagonista, che rivive il suo appassionato amore adolescenziale, ripropone la limpida prosa di Nievo, alternando le vicende sentimentali a quelle patriottiche. […] Vaccari, impegnato in una delle sue prime prove, dimostra grande abilità nel tratteggiare le scene con pochi e sapienti tocchi.».

Qualche commento sul romanzo. Credo che il bel testo d' Ippolito Nievo (purtroppo poco letto a scuola e conosciuto veramente da pochi), per importanza e valore letterario, si debba porre tra “I Promessi Sposi” del Manzoni e “I Malavoglia” del Verga. è mia opinione che esso contenga la storia di un popolo (rievocata attraverso un secolo di vicende piene di speranze e delusioni), strettamente intrecciata con la storia di un uomo (quella di Carlino Altoviti). E la storia individuale – sviluppata sul filo dell'autobiografia – costituisce per me la prima, grande e articolata, vera storia d'amore della letteratura italiana, analizzata con acutezza psicologica assolutamente nuova e originale, e – nel contesto del più esteso e complesso romanzo storico-patriottico dedicato all'amore per la Patria – è possibile enucleare il ben più piccolo medaglione costituito dall'amore per una Donna, la Pisana. La Pisana è un personaggio di donna emblematico, che presenta tutte le contraddizioni tipicamente femminili: è ora volubilmente impulsiva ora gelidamente calcolatrice; è ora dispoticamente aggressiva ora dolcemente remissiva; è ora egoisticamente capricciosa ora eroicamente generosa. L'amore di Carlino per l'amata–disprezzata Pisana inizia in un ragazzo come un «idillio fanciullesco» e diviene nell'uomo adulto un amore grande ma spesso intriso di cupa disperazione, perché alimentato dai mille tradimenti di lei e dal costante timore di perderla. Carlino però non è cieco, anzi conosce appieno tutti i difetti del carattere, l'indole vera e lo strano temperamento della donna amata, ch'erano già presenti nell'età infantile. Pur giudicando in modo moralistico questi difetti (il romanzo, d'altra parte, è ricco d'intenti moraleggianti e di scopi educativi), Carlino li comprende e li accetta, e il suo amore non ne risulta affatto scalfito. Molto acuta è anche la disamina che lo scrittore fa dell'amore e della varietà dei suoi aspetti, che richiederebbero diversi vocaboli aggiuntivi per specificarne meglio la natura. E similmente acuta è la descrizione del vero amore, quando il giovane Carlino riflette che la Pisana «non la ti ama con quell'impeto cieco, intero, perseverante che impedisce ogni considerazione, toglie ogni distanza e confonde anima ad anima». Pensando al suo amore per lei, Carlino osserva: «Sì, io l'amo, perché vi usai fin dalla nascita, perché quell'amore non è un sentimento ma una parte dell'anima mia, perch'esso è nato in me prima della ragione, prima dell'orgoglio». Carlino è convinto, inoltre, della grande forza educatrice dell'amore; dice: «Nessun miglior maestro dell'amore, egli insegna anche quello che non sa».

Mastro don Gesualdo fu presentato in sei puntate nel gennaio del 1964, di giovedì, per la sceneggiatura dello stesso Vaccari e di Ernesto Guida tratta dall'omonimo romanzo (1889) di Giovanni Verga (prima produzione televisiva su pellicola), con uno stupendo Enrico Maria Salerno (un mastro don Gesualdo di grande forza espressiva) e sempre con Lydia Alfonsi, vera musa del regista (una dolente e sofferta Bianca Trao), circondati da Sergio Tofano, Turi Ferro, Franca Parisi, Valeria Ciangottini e Maria Tolu. Gli attori – che prima erano i «protagonisti assoluti della narrativa televisiva» – in questo moderno sceneggiato sono come sottratti alla scena e il regista diviene «il vero deus ex machina della narrazione». Scrive Aldo Grasso: «Vicari firma il suo capolavoro, scardinando le regole linguistiche che fino allora avevano informato i teleromanzi, consuetudini ereditate dalla tradizione teatrale e tradotte in norme televisive tese a facilitare la sicura comprensione da parte del pubblico della vicenda raccontata. […] Vaccari utilizza in parte il dialetto e riproduce i quadri corali di Verga attraverso il sovrapporsi di voci chiassose; anche queste scelte ribadiscono il rifiuto dell'impostazione pedagogica a vantaggio di un deciso accostamento alla sensibilità e alle suggestioni cinematografiche.».

“Mastro don Gesualdo” di Verga avrebbe dovuto costituire (dopo “I Malavoglia”), il secondo testo di un ciclo di storie di ambiente siciliano, denominato “I Vinti”, che purtroppo non fu portato a termine. Questo ciclo era volto a condurre un'accurata analisi interna ai vari strati della società del tempo e a produrre un documento di viva testimonianza. In una sua lettera, Verga parlava di «fantasmagoria della lotta per la vita che si estende dal cenciaiuolo al ministro ed all'artista, e assume tutte le forme dall'ambizione all'avidità di guadagno». Lo scrittore siciliano era convinto che il progresso potesse avvenire soltanto a prezzo della stroncatura dei più deboli, con l'infelicità di molti, con la sconfitta degli ideali e col prevalere di bruti interessi economici; in ciò, era mosso da  un modo tragico di valutare la vita degli uomini e da un profondo senso d'empatia per “i vinti” e per le loro inevitabili sofferenze. è la storia di Gesualdo Motta, un rozzo muratore di Vizzini guidato da una vera e propria religione del lavoro, un uomo che si è tirato su dal nulla e che tenta la scalata al successo con le mani sporche di calcina. Si tratta di un personaggio che giganteggia con la sua personalità e che ha molto della grandiosità umana dei caratteri creati da Honoré de Balzac (1799–1850), la cui storia segue il suo classico schema romanzesco di ascesa-caduta. E nello sceneggiato di Vaccari, Enrico Maria Salerno, con il suo viso scavato e amaro, seppe dare a don Gesualdo una maschera intensa e una grandezza tragica.

Era nato, intanto, dal 1960, un forte sodalizio artistico e sentimentale tra Giacomo Vaccari e Lydia Alfonsi, stroncato purtroppo dalla tragica morte del regista.

Con sincera convinzione mi chiedo cosa Giacomo Vaccari, scomparso ad appena 32 anni, non sarebbe riuscito a creare se fosse vissuto più a lungo!

2 commenti:

  1. Ringrazio molto Silvia Iannello per aver dato corpo con dati biografici e storici agli indistinti ricordi che ancora mi facevano rivedere Enrico Maria Salerno urlare "sangu di giuda" nel piccolo schermo televisivo che nel 1964, quando avevo appena 6 anni, avevamo in comune con tutta la famiglia. Grazie a Youtube ho avuto modo di rivedere quel capolavoro e di commuovermi per la forza di un modo di narrare che certamente all'epoca non avevo capito ma che mi era evidentemente rimasto impresso. Sarebbe molto lungo e difficile entrare nel merito del romanzo e della narrazione cinematografica che ne ha fatto Vaccari, le scene definite corali che già nel romanzo fanno pensare al più moderno Robert Altman erano rese da Vaccari con una forza epica marcata dal dialetto forse più di quanto non avesse fatto lo stesso Verga. Tutto in quello sceneggiato era incredibilmente moderno, incredibilmente colto. Di nuovo grazie. Carlo Barucco

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