domenica 14 luglio 2013

Jalâl âlDîn Rumî e l’ineffabile trascendenza dell’amore mistico


Jalâl âlDîn Rumî in meditazione

Jalâl âlDîn Rumî e l’ineffabile trascendenza dell’amore mistico

Gialal al–Din (in arabo Jalâl âd Dîn ar Rumî), detto anche Mawlana cioè “nostro Maestro”, nacque a Balkh in Persia – oggi Afghanistan – nel 1207 ed è stato uno dei più grandi poeti persiani, influenzando il pensiero mistico e la letteratura intera. La “Mistica” è quella particolare esperienza spirituale che prevede la conoscenza profonda del divino e la sua contemplazione, giungendo così al raggiungimento della più alta perfezione dell’anima umana; e “mistica” è quella letteratura che narra le esperienze di questo tipo. Il motto di Gialal era: «Mostrati come sei, e sii come ti mostri».

Il Mathnawî (da Jalâl âlDîn Rumî Mathnawî, edizione italiana a cura di Gabriele Mandel Khân, Bompiani, 2006) è un testo straordinario, esoterico e simbolico, forse di non immediata comprensione ma di grande forza espressiva, di questo che è uno dei più grandi poeti mistici e che di sé diceva: «O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso.». Nei suoi versi ricchi di estatico ardore e di astratta semplicità, l’amore è considerato la religione più alta, con la quale si trova il rimedio a qualsiasi male e dalla quale nasce quella «sete su sete» che fa raggiungere l’Essere supremo.

In un brano del Libro I del poema (vv. 2656-2660), parlando dell’amata, Gialal al-Din scriveva: «L’uomo disse: “Adesso ho smesso di oppormi a te: hai tu l’autorità: estrai la spada dal fodero. / “Qualsiasi cosa tu ordini di fare, obbedirò, non starò a considerare neppure se l’ordine è buono o cattivo. / “Diventerò inesistente nella tua esistenza, poiché sono il tuo innamorato: l’amore rende cieco e sordo.”». Questo concetto della resa dell’innamorato all’amore (che è poi una metafora dell’amore divino) rientra perfettamente nell’insegnamento di Maometto (Mecca, 570–632), il fondatore dell’Islamismo, che è una religione monoteista basata sulla fede nell’unico Dio Allah; e “Islam” significa per l’appunto “resa”.

Il Libro III è pieno di parabole e allegorie, ed è dedicato a quell’amato che – pur temendo di tornare – è costretto dall’amore e ritorna poiché la vita poco importa agli innamorati sicché essi vi rinunciano per giungere all’amato: «Dopo dieci anni la nostalgia lo rese incapace di sopportare i giorni di separazione […] (v. 3690) / […] “Non darmi consigli poiché i miei lacci sono fortissimi. / “I miei lacci son più forti dei tuoi consigli (vv. 3830-31) / […] Ho un Amato il cui amore mi brucia le viscere; calpesti i miei occhi, se lo vuole. (v. 3841) / […] Ma la candela dell’Amore non è come una candela qualsiasi: è Luce su Luce su Luce. / è l’opposto delle candele ardenti: sembra fuoco, ma in effetti è tutta dolcezza. (vv. 3921-22) / […] Dagli alberi dell’amore escono ali che portano in cielo: “La sua radice è salda e i rami sono nel cielo” / […] Senz’altro c’è una finestra tra cuore e cuore: non sono separati e lontani come due corpi; / l’argilla di due lampade non è unita, ma la loro luce si fonde. / In verità nessun amante cerca l’unione se il suo amato non la cerca, / ma l’amore degli innamorati rende il corpo simile alla corda di un arco, mentre l’amore degli amati lo rende bello e florido. / Quando il lampo dell’amore per l’amato ha colpito questo cuore, sappi che in quel cuore c’è amore. / Quando nel tuo cuore l’amore per Dio raddoppia, sappi che senza alcun dubbio Dio ha amore per te. (vv. 4391-9)». Gialal continua a insistere sul fatto che l’Amato attira l’innamorato nel momento in cui egli non pensa a ciò né lo sa né lo spera; e continua inconsapevole nella sua ricerca e alla fine chi cerca trova: «[…] Quando più grande è lo sforzo di nasconderlo, tanto più l’Amore alza la testa come uno stendardo. Mi dice: “Guarda son qui.” (v. 4737)».

In un brano del Libro V, una innamorata chiede all’amato chi ami di più, se lei o se stesso, e l’innamorato risponde di essere morto a se stesso e di vivere soltanto grazie a lei; le confessa di non esistere più per ciò che riguarda se stesso o i suoi attributi ma soltanto grazie a lei; e sostiene ancora di avere dimenticato la propria consapevolezza ed – essendo diventato consapevole grazie alla sua consapevolezza – di avere perduto ogni concetto del potere e di essere diventato potente grazie alla potenza di lei. Egli ama se stesso perché ama lei, e se ama lei ama se stesso. Riporto alcuni versi di grande forza emotiva: «Per metterlo alla prova una innamorata chiese al suo innamorato durante la colazione del mattino: “tale figlio del tale / mi chiedo se tu ami di più me stessa o te stesso. Dimmi la verità.” / Disse: “Sono talmente annientato in te, che sono pieno di te dalla testa ai piedi. / “Della mia esistenza rimane solamente il mio nome; nel mio essere ci sei solamente tu, oh tu i cui desideri sono esauditi. / Io sono stato annientato come una goccia d’aceto in quell’oceano di miele che tu sei.” / Come la pietra, che diventa rubino puro, egli è pieno delle qualità del Sole. / In lui non rimane più nulla della qualità d’una pietra: egli è pieno delle qualità del Sole. (vv. 2020-6)».

La vita di Gialal al–Din è più appassionante di qualsiasi storia narrata ne Le mille e una notte ed è tutta improntata a sentimenti d’amore. Figlio di un sufi mistico molto noto (scrittore, teologo, predicatore e gran maestro) e di una donna turca di stirpe reale, a causa della minaccia dei mongoli, dovette abbandonare esule con la famiglia la città natia Balkh (che fu poi completamente distrutta) per andare a Nishapur, dopo aver visitato diverse località dell’altipiano iraniano. In seguito a un pellegrinaggio alla Mecca e a molto altro peregrinare ancora, raggiunse l’Anatolia che al tempo era una regione prospera e tranquilla (Rum; da qui il suo soprannome Rumî). Dopo la morte della madre, Gialal al-Din si stabilì definitivamente a Konya insieme al padre – il quale vi aprì una madrasa reale (una sorta di scuola religiosa) che diresse sino alla sua morte avvenuta nel 1231 – e si sposò due volte: la prima con la figlia di un maestro sufi di Samarcanda e la seconda con una cristiana convertita all’Islam, generando quattro figli. In seguito alla morte del padre, gli subentrò mostrando notevoli capacità spirituali. Nel 1244 Gialal al–Din ebbe modo d’incontrare per le strade di Konya un uomo benedetto (un “pazzo sacro” di grande fascino), Shams al–Din Muhammad Tabrîz (da lui soprannominato “Sole della religione”), che lo introdusse ai misteri della maestà e della bellezza divina. Si narra che, dopo il loro primo incontro e la prima discussione mistica, Rumî (ch’era a cavallo di una mula) sia svenuto e una volta rinvenuto sia rientrato a piedi nella madrasa con Shams tenendolo per mano; rimasero insieme per quaranta giorni senza fare entrare nessuno. Per mesi i due mistici vissero insieme in preda a «un’illuminazione interiore», amandosi così teneramente che Gialal al–Din dimenticò completamente l’insegnamento e la famiglia. Questo rapporto esclusivo creò nel suo “entourage” uno scandalo tale che nel 1245 Shams al–Din fu costretto con gravi minacce di morte ad abbandonare la città. Gialal al–Din n’ebbe il cuore spezzato; con la complicità forse di un figlio indignato da questa stretta relazione amorosa, gli allievi fecero sparire Shams al–Din al suo ritorno a Konja, probabilmente uccidendolo e buttandone il cadavere in un pozzo. è possibile che la storia sia soltanto la metafora di un’idea insita nel sufismo: quello del mistero della verità nel pozzo e della necessità della sua ricerca. Questa vicenda d’amore e morte illuminò Rumî, trasformandolo in un grandissimo poeta. Le sue poesie mistiche, ch’ebbero il potere d’ispirare anche Goethe, erano costituite da circa 30.000 versi ed erano la reale trasposizione della sua esperienza sentimentale nel racconto di tutti i vari stadi di quest’amore «raggiante come la luna», nel quale s’identificava a tal punto con l’amato da firmare molte delle poesie aggiungendo il nome di Shams: esse sono state raccolte in Dîvân–i Shams–i Tabrîz (Canzoniere di Shams–i Tabrîz).

In queste sue Poesie mistiche (da: Gialal ad–Din Rumi, Poesie mistiche, introduzione, traduzione, antologia critica e note di Alessandro Bausani, Rizzoli, Milano 1980), Gialal al–Din scrive versi strepitosi d’intenso amore; la “Poesia 18 (L’Amore)” così recita: «Quell’anima che non ha per costume l’Amore, / meglio è che non sia, ché onta è l’essere suo! / Inébriati dunque d’amore, ché Amore è tutto quello che esiste, / senza la veste d’Amore non si va alla corte dell’Amato. / Se chiedono: “Amore cos’è?” rispondi: “Rinuncia al volere: / chi alla Libertà non sfugge non è libero mai!”. / L’Amante è un Imperatore e i due mondi stan gettati ai suoi piedi: / il Re non riguarda nemmeno a quel che gli gettano ai piedi. / L’Amore e l’Amante vivono davvero in eterno: / non attaccare il cuore a cose riflesse e prestate! / […]». Nella “Poesia 20 (L’Amante perfetto)”, invece, con vivezza di particolari, il poeta identifica le qualità dell’amore che più sanno accendere la passione: «Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi, / produca finimondi di fuoco da ogni parte del mondo! / Voglio un cuore come inferno che soffochi il fuoco d’inferno / sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde! / Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano / […] / e, quando, dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi / da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!».

Pur trasmettendo esperienze mistiche con linguaggio umano, l’espressione della poesia di Gialal al–Din è fresca e immediata; sogni irreali e immagini reali della vita quotidiana si mescolano in un intreccio ricco di fascino e suggestione. Si racconta che molti suoi versi siano stati scritti mentre danzava in preda all’estasi, favorita dalla dolce melodia del flauto o dal martellamento dei tamburi o anche soltanto dal dolce rumore costituito dallo scorrere dell’acqua di un fiume. Il mistico trovava ispirazione continua a contatto di quella natura che amava tantissimo, condividendo il suo amore con fiori e uccelli. In seguito Gialal al–Din visse un secondo rapimento amoroso per un umile artigiano orafo, che considerava come una diversa manifestazione di Shams al–Din e che nuovamente gl’ispirò versi di notevole altezza lirica. Un altro grande evento nella vita di Gialala al–Din fu l’incontro a Damasco con Ibn al–Arabi, grande mistico islamico e teoreta dell’“unità dell’essere”. Rumî ebbe modo così di amalgamare l’inebriazione estatica di Shams–i Tabrîz con i ragionamenti visionari di Ibn al–Arabi («La realtà terrena non è che un riflesso della realtà simbolica che è la vera realtà.»). Si legò, quindi, di un forte amore spirituale per Celebi Husain al–Din Hasan, sotto la cui influenza scrisse il poema epico–didattico indicato in persiano Mathnawî e noto come Masnavî–yi Manavî (Coppie Spirituali), considerato da alcuni islamici come un vero e proprio “Corano in versi”, perché in grado di trasmettere un forte messaggio etico–filosofico di tolleranza e d’amore universale per l’uomo e per l’essere divino. Si trattava di un’ampia composizione costituita da sei libri o quaderni (in arabo “daftar”) – ciascuno preceduto da una prefazione in prosa araba – e da circa 51.000 “strofe rimate” (versi distici) che contenevano aneddoti, favole, proverbi, allegorie e strane storie fantastiche. Un altro libro dal titolo arabo Fihi ma fihi (C’è quel che c’è) raccoglieva interessanti dichiarazioni in prosa del maestro. La grandiosa opera avrebbe dovuto essere il «disvelatore dei misteri per giungere alla Verità… il rimedio per i cuori malati e il consolatore dei dolori... una preghiera che include tutte le categorie del creato…». E Gialal al–Din andava per casa e per le strade, recitando questo suo poema che conteneva l’esperienza del divino amore, accompagnato dal suo ispiratore Husain al–Din che considerava come una manifestazione di Shams al–Din. In conclusione, si può dire che Gialal al–Din abbia amato, in realtà, sempre e soltanto la stessa persona, luce e sole della sua vita. Dopo aver concluso questa composizione, Rumî visse ancora alcuni anni e spirò in dolce serenità nel 1273, salutando familiari e allievi. Fu sostituito alla guida dell’ordine, prima da Husain al–Din e successivamente dal figlio Sultan Walad, che ci ha fatto conoscere molto della vita del padre raccontandoci le sue idee poetiche, i suoi detti e pensieri, le sue lettere e le sue diverse predicazioni. Dopo la sua morte, a Rumî in Konya fu innalzata la “Cupola verde”, un mausoleo divenuto oggi un museo, meta di continui pellegrinaggi. Gialal volle che sul suo monumento sepolcrale fosse scritto: «[…] Dopo la mia morte non cercate la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che sanno.».

Francesco Alberoni, nel saggio Innamoramento e Amore (Garzanti, Milano 1979) ricollega l’amore al misticismo e così scrive: «L’amore diventa il luogo interiore della rigenerazione, un’isola sottratta alla contingenza, il giardino delle rose in mezzo al deserto, dove l’anima sazia la sua sete e può tornare nel mondo. Tutto questo è assai vicino al misticismo. […] Mawlawi Jalal ad Din Rumi scrive il più grande poema mistico dell’Islam, il “Mathnawi”, e la raccolta lirica del “Diwan”, dopo che Shams–e Tabrizi, un uomo da lui molto amato, scompare o muore. Nel Mathnawi egli non parla mai di quest’uomo ma solo di Dio, però in molte parti del poema si ha l’impressione di un amore così concreto e così struggente da confondere le figure dell’Amico umano e dell’Amore divino. Il Diwan è invece dedicato proprio a Shams–e Tabrizi, e qui è attraverso l’Amico amato che egli passa a parlare di Dio. L’amore mistico resta innamoramento perché con l’Amico o l’Amato divino non è possibile alcun patto di reciprocità. Uno può solo amare, l’altro può solo essere amato e la sua risposta – che non può essere garantita – è sempre e comunque “grazia”». Per Alberoni, quest’asimmetria totale e questa insuperabile distanza rendono l’amore mistico una rivelazione dell’essere come amore, rispetto al quale tutto il resto è contingente. E questa distanza nell’amore mistico è quella che fa sì che una continua sofferenza si trasformi miracolosamente in gioia: «L’amore mistico ci dimostra con chiarezza il fatto che lo stato d’innamoramento non dipende in alcun modo dalla proprietà dell’altro, esso è puramente e semplicemente un nostro modo di vedere (pensare, sentire, percepire, immaginare ecc.), cioè un sistema categoriale tutto interno alla struttura della nostra mente. Noi non vediamo le cose come sono, ma come le facciamo. L’amore mistico costruisce il suo oggetto a partire dalle categorie dello stato nascente e non potendo prendere una persona esistente (da trasfigurare nella immaginazione) costruisce il suo oggetto puro e ideale.». Ma la cultura contemporanea sostiene che ciò non sarebbe vivere; bisogna riconoscere, però, che nel corso dei millenni «il misticismo è stato una forma di vita assai importante ed assai intensa». Infatti, per colui che lo ama, l’oggetto non cessa di essere reale: «D’altronde anche nell’innamoramento è “reale” la persona amata? Anche qui l’amato è il prodotto dell’immaginario. Solo di un immaginario che si fa progetto, che vuol modificare la realtà per realizzarsi, incarnarsi nel mondo.».

Gialal al–Din costituisce il rappresentante emblematico di quella forma particolare di misticismo che ha formato la base del “Sufismo” storico, cioè di quella confraternita religiosa sufi dei “dervisci rotanti” (mevlevi), i dervisci di nostro Signore. Dopo la sua morte, i suoi discepoli si sono organizzati nell’ordine Mawlaniano, caratterizzato da una tipica danza simbolica e rituale di tipo mistico, in grado di indurre uno stato d’ipnosi psicofisiologica chiamata “trance”. Per celebrare la morte di Rûmî, a Konya nella seconda settimana di dicembre i Mevlevi danzano un Samâ rituale (vedere Gabriele Mandel, San Francesco e Rumi, http://www.puntosufi.it/temi32.htm). Si tratta di una danza fortemente spirituale, espressione stessa della realtà (divina e fenomenica) in cui, per esistere, tutto deve ruotare vorticosamente come atomi e pianeti, e come lo stesso pensiero. Il Samâ è «un vero e proprio rito religioso», diviso in sette fasi, un simbolo alto di quell’ascesa spirituale, di quel viaggio mistico dall’essere umano a Dio (nel quale l’essere si dissolve) e del successivo ritorno sulla terra. A questa danza partecipano musici e cantanti, il Maestro e i danzatori. Alcuni gruppi di danzatori (non sufi) hanno imparato una forma ridotta, lontana dalla tradizione codificata, di questa danza e di questa musica, rappresentandola nei teatri europei e italiani. Scrive Gabriele Mandel: «Il frate Francesco, grande mistico della cristianità, e il sufi Rûmî, grande mistico dell’Îslâm sono molto vicini a Dio, e pertanto molto vicini fra di loro. Hanno numerosi punti di contatto per ciò che riguarda la loro vita terrena, e molti punti di contatto per ciò che riguarda la loro visione del divino.».

Per concludere, Saffo e Rumî sono la prova più lampante che il grande amore trascende la diversità tra i sessi e l’orientamento sessuale. Se questo era possibile già nel passato lontano, lo è maggiormente oggi, perché – grazie a profondi cambiamenti di cultura e di costume – i sentimenti d’amore sono vissuti sempre più in piena libertà.

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