Jalâl âlDîn Rumî in meditazione
Jalâl âlDîn Rumî e l’ineffabile
trascendenza dell’amore mistico
Gialal al–Din (in
arabo Jalâl âd Dîn ar Rumî), detto anche Mawlana cioè “nostro
Maestro”, nacque a Balkh in
Persia – oggi Afghanistan – nel 1207 ed è stato uno dei più grandi poeti persiani, influenzando il pensiero
mistico e la letteratura intera. La “Mistica” è quella particolare esperienza spirituale che prevede la conoscenza
profonda del divino e la sua contemplazione, giungendo così al raggiungimento
della più alta perfezione dell’anima umana; e “mistica” è quella letteratura che narra le
esperienze di questo tipo. Il motto di Gialal era: «Mostrati come sei, e
sii come ti mostri».
Il Mathnawî (da Jalâl âlDîn Rumî – Mathnawî, edizione italiana a cura di Gabriele Mandel Khân, Bompiani, 2006)
è un testo straordinario, esoterico e simbolico, forse di non immediata
comprensione ma di grande forza espressiva, di questo che è uno dei più grandi
poeti mistici e che di sé diceva: «O
uomo! Viaggia da te stesso in te stesso.». Nei suoi versi ricchi di estatico ardore e di astratta semplicità, l’amore è
considerato la religione più alta, con la quale si trova il rimedio a qualsiasi
male e dalla quale nasce quella «sete su sete» che fa raggiungere l’Essere supremo.
In un brano del
Libro I del poema (vv. 2656-2660), parlando dell’amata, Gialal al-Din scriveva:
«L’uomo disse: “Adesso
ho smesso di oppormi a te: hai tu l’autorità: estrai la spada dal fodero. / “Qualsiasi cosa tu ordini di fare,
obbedirò, non starò a considerare neppure se l’ordine è buono o cattivo. / “Diventerò inesistente nella tua
esistenza, poiché sono il tuo innamorato: l’amore rende cieco e sordo.”». Questo concetto della resa dell’innamorato all’amore (che è poi una
metafora dell’amore divino) rientra perfettamente nell’insegnamento di Maometto
(Mecca, 570–632), il fondatore dell’Islamismo, che è una religione monoteista
basata sulla fede nell’unico Dio Allah; e “Islam” significa per l’appunto “resa”.
Il Libro III è
pieno di parabole e allegorie, ed è dedicato a quell’amato che – pur temendo di
tornare – è costretto dall’amore e ritorna poiché la vita poco importa agli innamorati
sicché essi vi rinunciano per giungere all’amato: «Dopo dieci anni la nostalgia
lo rese incapace di sopportare i giorni di separazione […] (v. 3690) / […] “Non darmi consigli
poiché i miei lacci sono fortissimi. / “I miei lacci son più forti dei tuoi
consigli (vv. 3830-31) / […] Ho
un Amato il cui amore mi brucia le viscere; calpesti i miei occhi, se lo vuole.
(v. 3841) / […] Ma la candela
dell’Amore non è come una candela qualsiasi: è
Luce su Luce su Luce. / è l’opposto
delle candele ardenti: sembra fuoco, ma in effetti è tutta dolcezza. (vv. 3921-22) / […] Dagli alberi dell’amore
escono ali che portano in cielo: “La sua radice è salda e i rami sono nel cielo” / […] Senz’altro c’è una finestra
tra cuore e cuore: non sono separati e lontani come due corpi; / l’argilla di
due lampade non è unita, ma la loro luce si fonde. / In verità nessun amante
cerca l’unione se il suo amato non la cerca, / ma l’amore degli innamorati
rende il corpo simile alla corda di un arco, mentre l’amore degli amati lo
rende bello e florido. / Quando il lampo dell’amore per l’amato ha colpito
questo cuore, sappi che in quel cuore c’è amore. / Quando nel tuo cuore l’amore
per Dio raddoppia, sappi che senza alcun dubbio Dio ha amore per te. (vv. 4391-9)». Gialal continua a
insistere sul fatto che l’Amato attira l’innamorato nel momento in cui egli non
pensa a ciò né lo sa né lo spera; e continua inconsapevole nella sua ricerca e
alla fine chi cerca trova: «[…] Quando più grande è lo sforzo di
nasconderlo, tanto più l’Amore alza la testa come uno stendardo. Mi dice:
“Guarda son qui.” (v. 4737)».
In un brano del Libro V, una innamorata chiede all’amato chi
ami di più, se lei o se stesso, e l’innamorato risponde di essere morto a se
stesso e di vivere soltanto grazie a lei; le confessa di non esistere più per
ciò che riguarda se stesso o i suoi attributi ma soltanto grazie a lei; e
sostiene ancora di avere dimenticato la propria consapevolezza ed – essendo
diventato consapevole grazie alla sua consapevolezza – di avere perduto ogni
concetto del potere e di essere diventato potente grazie alla potenza di lei. Egli
ama se stesso perché ama lei, e se ama lei ama se stesso. Riporto alcuni versi
di grande forza emotiva: «Per metterlo alla prova una innamorata chiese al suo
innamorato durante la colazione del mattino: “tale figlio del tale / mi chiedo
se tu ami di più me stessa o te stesso. Dimmi la verità.” / Disse: “Sono
talmente annientato in te, che sono pieno di te dalla testa ai piedi. / “Della
mia esistenza rimane solamente il mio nome; nel mio essere ci sei solamente tu,
oh tu i cui desideri sono esauditi. / Io sono stato annientato come una goccia
d’aceto in quell’oceano di miele che tu sei.” / Come la pietra, che diventa
rubino puro, egli è pieno delle qualità del Sole. / In lui non rimane più nulla
della qualità d’una pietra: egli è pieno delle qualità del Sole. (vv. 2020-6)».
La vita di Gialal al–Din è più appassionante di qualsiasi
storia narrata ne Le mille e una notte
ed è tutta improntata a sentimenti d’amore. Figlio di un sufi mistico molto
noto (scrittore, teologo, predicatore e gran maestro) e di una donna turca di
stirpe reale, a causa della minaccia dei mongoli, dovette abbandonare esule con
la famiglia la città natia Balkh (che fu poi completamente distrutta) per
andare a Nishapur, dopo aver visitato diverse località dell’altipiano iraniano.
In seguito a un pellegrinaggio alla Mecca e a molto altro peregrinare ancora,
raggiunse l’Anatolia che al tempo era una regione prospera e tranquilla (Rum;
da qui il suo soprannome Rumî).
Dopo la morte della madre, Gialal al-Din si stabilì definitivamente a Konya
insieme al padre – il quale vi aprì una madrasa reale (una sorta di scuola
religiosa) che diresse sino alla sua morte avvenuta nel 1231 – e si sposò due
volte: la prima con la figlia di un maestro sufi di Samarcanda e la seconda con
una cristiana convertita all’Islam, generando quattro figli. In seguito alla
morte del padre, gli subentrò mostrando notevoli capacità spirituali. Nel 1244
Gialal al–Din ebbe modo d’incontrare per le strade di Konya un uomo benedetto (un
“pazzo sacro” di grande fascino), Shams al–Din Muhammad Tabrîz (da lui soprannominato “Sole della
religione”), che lo introdusse ai misteri della maestà e della bellezza divina.
Si narra che, dopo il loro primo incontro e la prima discussione mistica, Rumî (ch’era a
cavallo di una mula) sia svenuto e una volta rinvenuto sia rientrato a piedi
nella madrasa con Shams tenendolo per mano; rimasero insieme per quaranta
giorni senza fare entrare nessuno. Per mesi i due mistici vissero insieme in
preda a «un’illuminazione interiore», amandosi così teneramente che Gialal al–Din
dimenticò completamente l’insegnamento e la famiglia. Questo rapporto esclusivo
creò nel suo “entourage” uno scandalo tale che nel 1245 Shams al–Din fu
costretto con gravi minacce di morte ad abbandonare la città. Gialal al–Din n’ebbe
il cuore spezzato; con la complicità forse di un figlio indignato da questa
stretta relazione amorosa, gli allievi fecero sparire Shams al–Din al suo
ritorno a Konja, probabilmente uccidendolo e buttandone il cadavere in un
pozzo. è possibile che la storia
sia soltanto la metafora di un’idea insita nel sufismo: quello del mistero della
verità nel pozzo e della necessità della sua ricerca. Questa vicenda d’amore e
morte illuminò Rumî,
trasformandolo in un grandissimo poeta. Le sue poesie mistiche, ch’ebbero il
potere d’ispirare anche Goethe, erano costituite da circa 30.000 versi ed erano
la reale trasposizione della sua esperienza sentimentale nel racconto di tutti
i vari stadi di quest’amore «raggiante come la luna», nel quale s’identificava
a tal punto con l’amato da firmare molte delle poesie aggiungendo il nome di
Shams: esse sono state raccolte in Dîvân–i
Shams–i Tabrîz (Canzoniere di Shams–i Tabrîz).
In queste sue Poesie mistiche (da: Gialal ad–Din Rumi, Poesie mistiche,
introduzione, traduzione, antologia critica e note di Alessandro Bausani,
Rizzoli, Milano 1980), Gialal al–Din
scrive versi strepitosi d’intenso amore; la “Poesia 18 (L’Amore)” così recita: «Quell’anima
che non ha per costume l’Amore,
/ meglio è che non sia, ché onta è l’essere suo! / Inébriati dunque d’amore, ché Amore è tutto quello che esiste, / senza la veste d’Amore non si va alla corte dell’Amato. / Se chiedono: “Amore cos’è?” rispondi: “Rinuncia
al volere: / chi alla Libertà non sfugge non è libero mai!”. / L’Amante è un Imperatore e i due
mondi stan gettati ai suoi piedi: / il Re non riguarda nemmeno a quel che gli
gettano ai piedi. / L’Amore
e l’Amante vivono
davvero in eterno: / non attaccare il cuore a cose riflesse e prestate! / […]».
Nella “Poesia 20 (L’Amante perfetto)”, invece,
con vivezza di particolari, il poeta identifica le qualità dell’amore che più
sanno accendere la passione: «Ho
bisogno d’un amante
che, ogni qual volta si levi, / produca finimondi di fuoco da ogni parte del
mondo! / Voglio un cuore come inferno che soffochi il fuoco d’inferno / sconvolga duecento mari e
non rifugga dall’onde!
/ Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano / […] / e, quando, dal settimo mare si
volgerà ai monti Qâf misteriosi / da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!».
Pur trasmettendo esperienze mistiche con linguaggio umano,
l’espressione della poesia di Gialal al–Din è fresca e immediata; sogni irreali
e immagini reali della vita quotidiana si mescolano in un intreccio ricco di
fascino e suggestione. Si racconta che molti suoi versi siano stati scritti
mentre danzava in preda all’estasi, favorita dalla dolce melodia del flauto o
dal martellamento dei tamburi o anche soltanto dal dolce rumore costituito
dallo scorrere dell’acqua di un fiume. Il mistico trovava ispirazione continua
a contatto di quella natura che amava tantissimo, condividendo il suo amore con
fiori e uccelli. In seguito Gialal al–Din visse un secondo rapimento amoroso
per un umile artigiano orafo, che considerava come una diversa manifestazione
di Shams al–Din e che nuovamente gl’ispirò versi di notevole altezza lirica. Un altro grande evento nella vita di Gialala al–Din fu l’incontro
a Damasco con Ibn al–Arabi, grande mistico islamico e teoreta dell’“unità dell’essere”. Rumî ebbe modo così di amalgamare l’inebriazione
estatica di Shams–i Tabrîz
con i ragionamenti visionari di Ibn al–Arabi («La realtà terrena non è che un
riflesso della realtà simbolica che è la vera realtà.»). Si legò, quindi, di un forte amore
spirituale per Celebi Husain al–Din
Hasan, sotto la cui influenza scrisse il poema epico–didattico indicato in persiano Mathnawî
e noto come Masnavî–yi Ma’navî (Coppie Spirituali), considerato da alcuni islamici come un
vero e proprio “Corano in versi”,
perché in grado di trasmettere un forte messaggio etico–filosofico di tolleranza e d’amore
universale per l’uomo e per l’essere divino. Si trattava di un’ampia
composizione costituita da sei libri o quaderni (in arabo “daftar”) – ciascuno preceduto da una
prefazione in prosa araba – e da circa
51.000 “strofe rimate” (versi
distici) che contenevano aneddoti, favole, proverbi, allegorie e strane storie
fantastiche. Un altro libro dal titolo arabo Fihi ma fihi (C’è quel
che c’è) raccoglieva interessanti
dichiarazioni in prosa del maestro. La grandiosa opera avrebbe dovuto essere il «disvelatore dei misteri per giungere
alla Verità… il rimedio per i cuori malati e il consolatore dei dolori... una
preghiera che include tutte le categorie del creato…». E Gialal al–Din
andava per casa e per le strade, recitando questo suo poema che conteneva
l’esperienza del divino amore, accompagnato dal suo ispiratore Husain al–Din che considerava come una manifestazione
di Shams al–Din. In
conclusione, si può dire che Gialal al–Din abbia amato, in realtà, sempre e soltanto la stessa persona, luce e
sole della sua vita. Dopo aver concluso questa composizione, Rumî visse ancora alcuni anni e spirò in dolce serenità nel 1273, salutando
familiari e allievi. Fu sostituito alla guida dell’ordine, prima da Husain al–Din e successivamente dal figlio Sultan
Walad, che ci ha fatto conoscere molto della vita del padre raccontandoci le
sue idee poetiche, i suoi detti e pensieri, le sue lettere e le sue diverse
predicazioni. Dopo la sua morte, a Rumî in Konya fu innalzata la
“Cupola verde”, un mausoleo
divenuto oggi un museo, meta di continui pellegrinaggi. Gialal volle che sul
suo monumento sepolcrale fosse scritto: «[…] Dopo la mia morte non
cercate la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che sanno.».
Francesco Alberoni, nel saggio Innamoramento e Amore (Garzanti, Milano 1979) ricollega l’amore al
misticismo e così scrive: «L’amore diventa il luogo interiore della
rigenerazione, un’isola sottratta alla contingenza, il giardino delle rose in mezzo
al deserto, dove l’anima sazia la sua sete e può tornare nel mondo. Tutto
questo è assai vicino al misticismo. […] Mawlawi Jalal ad Din Rumi scrive il
più grande poema mistico dell’Islam, il “Mathnawi”, e la raccolta lirica del “Diwan”,
dopo che Shams–e Tabrizi, un
uomo da lui molto amato, scompare o muore. Nel Mathnawi egli non parla mai di
quest’uomo ma solo di Dio, però in molte parti del poema si ha l’impressione di
un amore così concreto e così struggente da confondere le figure dell’Amico
umano e dell’Amore divino. Il Diwan è invece dedicato proprio a Shams–e Tabrizi, e qui è attraverso l’Amico
amato che egli passa a parlare di Dio. L’amore mistico resta innamoramento
perché con l’Amico o l’Amato divino non è possibile alcun patto di reciprocità.
Uno può solo amare, l’altro può solo essere amato e la sua risposta – che non può essere garantita – è sempre e comunque “grazia”». Per Alberoni, quest’asimmetria
totale e questa insuperabile distanza rendono l’amore mistico una rivelazione
dell’essere come amore, rispetto al quale tutto il resto è contingente. E questa
distanza nell’amore mistico è quella che fa sì che una continua sofferenza si trasformi
miracolosamente in gioia: «L’amore mistico ci dimostra con chiarezza il fatto
che lo stato d’innamoramento non dipende in alcun modo dalla proprietà dell’altro,
esso è puramente e semplicemente un nostro modo di vedere (pensare, sentire,
percepire, immaginare ecc.), cioè un sistema categoriale tutto interno alla
struttura della nostra mente. Noi non vediamo le cose come sono, ma come le
facciamo. L’amore mistico costruisce il suo oggetto a partire dalle categorie
dello stato nascente e non potendo prendere una persona esistente (da trasfigurare
nella immaginazione) costruisce il suo oggetto puro e ideale.». Ma la cultura
contemporanea sostiene che ciò non sarebbe vivere; bisogna riconoscere, però, che
nel corso dei millenni «il misticismo è stato una forma di vita assai
importante ed assai intensa». Infatti, per colui che lo ama, l’oggetto non
cessa di essere reale: «D’altronde anche nell’innamoramento è “reale” la persona amata? Anche qui l’amato è il prodotto dell’immaginario. Solo di un immaginario che si
fa progetto, che vuol modificare la realtà per realizzarsi, incarnarsi nel
mondo.».
Gialal al–Din costituisce
il rappresentante emblematico di quella forma particolare di misticismo che ha
formato la base del “Sufismo”
storico, cioè di quella confraternita religiosa sufi dei “dervisci rotanti” (mevlevi), i dervisci di nostro Signore. Dopo la sua morte, i suoi
discepoli si sono organizzati nell’ordine Mawlaniano, caratterizzato da una
tipica danza simbolica e rituale di tipo mistico, in grado di indurre uno stato
d’ipnosi psicofisiologica chiamata “trance”. Per celebrare la morte di Rûmî, a Konya nella seconda settimana di
dicembre i Mevlevi danzano un Samâ rituale (vedere Gabriele Mandel, San Francesco
e Rumi, http://www.puntosufi.it/temi32.htm). Si tratta di una danza fortemente
spirituale, espressione stessa della realtà (divina e fenomenica) in cui, per esistere,
tutto deve ruotare vorticosamente come atomi e pianeti, e come lo stesso
pensiero. Il Samâ è «un vero e
proprio rito religioso», diviso
in sette fasi, un simbolo alto di quell’ascesa spirituale, di quel viaggio
mistico dall’essere umano a Dio (nel quale l’essere si dissolve) e del
successivo ritorno sulla terra. A questa danza partecipano musici e cantanti,
il Maestro e i danzatori. Alcuni gruppi di danzatori (non sufi) hanno imparato una
forma ridotta, lontana dalla tradizione codificata, di questa danza e di questa
musica, rappresentandola nei teatri europei e italiani. Scrive Gabriele Mandel:
«Il frate Francesco, grande
mistico della cristianità, e il sufi Rûmî, grande mistico dell’Îslâm sono molto
vicini a Dio, e pertanto molto vicini fra di loro. Hanno numerosi punti di
contatto per ciò che riguarda la loro vita terrena, e molti punti di contatto
per ciò che riguarda la loro visione del divino.».
Per concludere, Saffo e Rumî sono la prova più
lampante che il grande amore trascende la diversità tra i sessi e
l’orientamento sessuale. Se questo era possibile già nel passato lontano, lo è
maggiormente oggi, perché – grazie a profondi cambiamenti di cultura e di
costume – i sentimenti d’amore sono vissuti sempre più in piena libertà.
Nessun commento:
Posta un commento