giovedì 25 luglio 2013

Francesco Petrarca: Laura, unico amore in vita e in morte


Francesco Petrarca e Laura

Trascrivo per voi la più nota e la più bella delle ventinove canzoni che compongono le Rime del Petrarca.

Chiare, fresche, e dolci acque

Chiare, fresche, e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

            S’egli è pur mio destino,
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non porìa mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l’ossa.

            Tempo verrà ancor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ’v’ella mi scòrse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta
cercandomi; et, o pièta!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impètre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: – Qui regna Amore –.

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
– Costei per fermo nacque in paradiso! –
Così carco d’oblio
il divin portamento,
e ’l volto, e le parole, e ’l dolce riso
m’aveano, e sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
– Qui come venn’io, o quando? –
credendo d’esser in cielo, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
quest’erba sì, ch’altrove non ò pace.

            Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia (il poeta si riferisce alla canzone),
poresti arditamente
uscir del bosco, e gir in fra la gente.
(Sonetto CXXVI, da “Rime in vita di Madonna Laura”, nel “Canzoniere”)

In un momento di malinconia, il poeta si reca sulle rive del fiume ove altre volte aveva avuto modo d’incontrare e ammirare la sua amata. Laura non c’è fisicamente ma la sua presenza appare riflettersi nelle forme della natura: tutti i luoghi e le cose sembrano aver conservato il suo alone, sembrano esser pieni delle sue memorie e parlare di lei. E immagina di poter morire in quei luoghi che hanno visto la bellezza della donna amata; il ricordo di lei, così come l’aveva veduta in riva al fiume, è però talmente forte che si sente consolato e a questa dolce consolazione amorosa s’abbandona completamente, dimenticando tutto – perché si trova là e come vi è giunto – e credendo di essere stato rapito in cielo. È la sublime forza dell’amore che tutti conosciamo e che in assenza dell’amato può nutrirsi anche soltanto di sogni e ricordi!

Per Petrarca, l’Amore è una forza travolgente che «saetta… vola... minaccia… percote... ruba per forza… invola», dalle «instabili rote», dalle «speranze dubbiose» e dal «dolore certo»; l’amore agisce nelle ossa come «fuoco coperto» e vive nelle vene come «occulta piaga». Scrive Francesco: «Amor mi sprona in un tempo et affrena / assecura et spaventa, arde et agghiaccia, / gradisce et sdegna, a sé mi chiama et scaccia, / or mi tene in speranza et or in pena, / or alto or basso il meo cor lasso mena: / onde ’l vago desir perde la traccia / e ’l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì novo la mia mente è piena […]» (s. CLXXVIII del “Canzoniere”). A proposito della schiavitù creata dall’amore–passione, si può osservare qualcosa di simile nel sonetto a Cino di Dante Alighieri: «Io sono stato con Amore insieme […] / e so com’egli affrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme: / […] / Ben può con nuovi spron punger lo fianco, / e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra, / seguitar si convien, se l’altro è stanco.» (s. CXI, dalle “Rime”).

Su Petrarca e sul significato del suo amore per Laura, in una nota alla sua traduzione dei sonetti di Skakespeare, Giuseppe Ungaretti (1888–1970) ha scritto: «S’indugia l’amore del Petrarca a riparare le rovine minuto per minuto, quasi insensibile alla fuga del tempo, e dando al tempo gradualmente spazio d’infinita profondità storica, suscitando una forma, forma terrena, bellezza nella incorruttibilità delle idee: Laura. Per lenta variazione di luce procede il Petrarca, sino a quando l’invecchiamento apertogli un baratro ai piedi, non avrà la luce fattasi sfolgorante e spaventosa, svelato soprannaturali l’amore, la bellezza, l’immortalità: Laura.».

A proposito di Petrarca e di Laura, desidero anche ricordare L’amore in sé di Marco Santagata  (Guanda, Parma, 2006), nel quale si racconta di un anziano professore di filologia, cinico e amareggiato dal dolore represso di avere un figlio down. Nella sua «angoscia di vecchio stanco e disperato», che sa «quanto sia duro vivere se si è morti dentro», ha un cedimento improvviso e s’identifica con un sonetto di Petrarca, ritrovando la nostalgia per un rimosso amore del passato (per una figura femminile del ricordo) e mescolando il passato col presente. Tiene all’università di Ginevra un corso di lezioni su Petrarca e – proprio durante una di queste lezioni – mentre legge e commenta un sonetto e mentre l’aula risuona degli evocativi versi dedicati a un amore perduto irrimediabilmente (quello di Petrarca per Laura morta), viene inondato all’improvviso dal ricordo di Bubi. L’italianista incorre allora in un lapsus freudiano che incuriosisce i suoi allievi: al posto del nome di Laura usa quello di Bubi, il primo amore infelice e perduto, forse sopito ma mai dimenticato. Bubi era un’esile adolescente, bionda e bellissima, ricca e irraggiungibile, che a lui (giovanissimo quindicenne della pianura emiliana) era apparsa con la sua carica di grazia e tenerezza in tutto simile a una donna del “dolce Stil Novo”: seducente e inafferrabile, alla stessa maniera enigmatica della Laura di Petrarca. Il disincantato professore si ritrova allora a interpretare la lirica di Petrarca alla luce della propria esistenza vile e rassegnata. E nei due piani del romanzo, in modo assolutamente inaspettato e imprevedibile, presente e passato, Laura e Bubi, si sovrappongono e s’intrecciano nel medesimo incanto poetico. Su questa scia, desidero ricordare i primi struggenti e bellissimi versi del sonetto implicato nel lapsus La vita fugge e non si arresta un’ora (che fa parte delle “Rime in morte di Madonna Laura”): «La vita fugge, e non s’arresta un’ora, / e la morte vien dietro a gran giornate, / e le cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora; / e il rimembrare e l’aspettare m’accora / […]» (s. CCLXXII).

Pur essendo stato quasi contemporaneo di Dante, Petrarca è vissuto e si è mosso in un ambiente più moderno, rinunciando al dogmatismo medievale e preferendo l’interesse per il proprio io profondo, attento al mondo esterno. In questo senso, si può parlare di umanesimo del poeta, poiché l’uomo – con la sua spiritualità e la sua moralità – costituisce l’unico oggetto di conoscenza degno d’attenzione. Figlio di un notaio fiorentino, che aveva cognome Petracco, nacque ad Arezzo il 20 luglio del 1304 e si attribuì il nome “Petrarca” perché lo considerava un’elegante trasposizione latina del suo patronimico. Aveva seguito ad Avignone il padre esule da Firenze, travolto dalla stessa tragedia politica di Dante (del quale era amico), provocata dalla sconfitta dei Bianchi. Dopo aver studiato la grammatica e la retorica, s’era dedicato agli studi giuridici che in seguito rinnegò dicendo: «Nulla può ben riuscire a dispetto del naturale. Io nacqui vago non del foro ma della solitudine.». Si votò poi completamente agli studi umanistici e, ancora giovane, ebbe grandi riconoscimenti e fama diffusa per il successo del poema in latino Africa. Viaggiò moltissimo per l’Europa (anche per motivi diplomatici), abitando per lunghi anni ad Avignone. Uomo molto religioso, visse al seguito del cardinale Giovanni Colonna, prendendo anche gli Ordini minori per avere quei miglioramenti di carriera e quei benefici ecclesiastici che gli consentirono una vita discretamente agiata. Non fu attivo politicamente come Dante (che ebbe modo di conoscere personalmente) e fu portato piuttosto alla meditazione spirituale e all’introspezione in ritiri di campagna lontani dalla confusione delle città: «né lieto troppo, né mesto, assorto e notte e giorno in pace dolcissima […] di servi povero, di libri ricco». Diceva di sé: «Non io dei civili strepiti mi diletto, non delle leggi e delle armi, ma alla solitudine e all’ozio son nato». Malinconico e riflessivo, era anche inquieto e consapevole della caducità delle cose del mondo. Ambiva a una serena stabilità, al dominio delle passioni, all’educazione dello spirito e a un forte controllo etico, e considerava l’uomo come l’unico artefice del suo destino e della sua felicità. Per questi motivi, volle dare di sé un’immagine di perfezione assoluta, così da servire come modello d’imitazione. Nonostante tutto, però, era ambizioso dal punto di vista mondano, assetato di nuove esperienze e desideroso di successo.

Credeva che il latino fosse la lingua nobile; scrisse pertanto in latino moltissime opere di cultura filologica, tra le quali il poema epico già ricordato al quale aveva affidato tutte le sue aspettative di gloria imperitura. Il 6 Aprile del 1327 nella Chiesa d’Avignone, Petrarca conobbe Laura e l’amò sino alla sua morte (avvenuta nel 1348 a causa della peste) e per altri dieci anni dopo la sua scomparsa; scriveva: «Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge, / Piacer mi tira, Usanza mi trasporta, / Speranza mi lusinga et riconforta / et la man destra al cor già stanco porge: / e ’l misero la prende, et non s’accorge / di nostra cieca et disleale scorta: / regnano i sensi, et la ragione è morta; / de l’un vago desio l’altro risorge. / […] / Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto intrai, nè veggio ond’esca.» (s. CCXI dal “Canzoniere”). Si trattava probabilmente di Laura de Noves, andata sposa a Ugo de Sade: l’amore fu reale ma quasi certamente non ricambiato e divenne il nucleo centrale della poetica del poeta. Come Beatrice, piuttosto che una donna, Laura è un ideale femminile vero e proprio, forse soltanto il pretesto per esprimere il proprio mondo sentimentale e la propria interiorità. In effetti, non ha nessuna importanza se Laura abbia ricambiato o no questo sentimento o se sia stata soltanto un fantasma d’amore che viveva la sua stupenda vita esclusivamente nei versi di Petrarca. Quanti di noi non hanno amato spesso null’altro che un sogno, null’altro che l’immagine di un istante? Scriveva di lui l’inquieto poeta astigiano Vittorio Alfieri (1749–1803), anch’egli ispirato dall’amore (quello per la contessa d’Albany): «gentil d’amore mastro profondo». E il poeta inglese George Byron, meglio noto come Lord Byron (1788–1824), ebbe il modo di dire «Se Laura fosse stata la moglie del Petrarca, pensate | che lui avrebbe scritto sonetti tutta la vita?». Com’è vero purtroppo: la quotidianità e l’abitudine dissolvono qualsiasi amore travolgente!

Nel 1341 Francesco fu incoronato poeta sul Campidoglio, ricevendo il riconoscimento ufficiale della laurea poetica e raggiungendo quel che era stato il grande scopo della sua vita. Fu incline alle relazioni amorose passeggere: da due diversi rapporti sentimentali ebbe i figli Giovanni (1337) e Francesca (1342), che gli restò vicina con la sua famiglia per tutta la vita. Durante gli ultimi quattro anni della sua esistenza, il poeta visse in una residenza campestre ad Arquà sui colli Euganei, in una «modesta e graziosa villetta» con un uliveto e una vigna, che gli era stata regalata dal mecenate padovano Francesco di Carrara. Nonostante il prevalente interesse per il latino, scrisse in volgare il Trionfo dell’Eternità. Morì improvvisamente il 19 luglio del 1374 per una sincope e venne sepolto in Arquà, secondo il suo desiderio.

Pur considerando il latino la lingua colta e nobile e pur ostentando uno scarso interesse per i problemi del volgare, Petrarca è diventato grande cantando l’amore per Laura in quelle Rime, scritte in volgare (che in fondo al cuore disprezzava), alle quali lungo tutto il corso della sua vita aveva dedicato novità di sperimentazione, cura stilistica e attento lavoro di limatura. Si trattava di rime sparse e di frammenti lirici, che alla maniera di Catullo chiamava “nugae” (letteralmente “inezie”) e che aveva cercato di organizzare nel “Canzoniere” nelle due sezioni in vita e in morte di Madonna Laura, separate dalla canzone Io vo pensando, et nel penser m’assale: «I’ vo pensando, et nel penser m’assale / una pietà sì forte di me stesso, / che mi conduce spesso / ad altro lagrimar ch’i’ non soleva: / ché, vedendo ogni giorno il fin più presso, / mille fïate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del mortale / carcer nostro intelletto al ciel si leva. / […]». Talora alterò la cronologia temporale in modo che i sonetti venissero a costituire quasi un diario personale, in grado di esprimere pienamente il passaggio da un futile amore terreno alla catarsi cristiana di un’anima, tesa come un arco tra realtà e ideale. Si conoscono due edizioni dell’opera, entrambe approvate dall’autore: una prima che comprendeva 215 composizioni liriche, e una seconda che ne conteneva invece 366.

Combattuto tra sogno e realtà, tra solitudine e mondanità, tra amor terreno ed estasi divina, tra entusiasmo per i classici e istanze cristiane, con la sua problematicità esistenziale, Petrarca riuscì a superare l’artificiosità del dolce “Stil Novo” e a creare le nuove basi per una poesia più moderna. Ebbe una fortuna poetica immensa esercitando un fascino straordinario: le sue poesie d’amore sono state imitate sino ai giorni nostri, creando quella imperitura corrente poetica chiamata “Petrarchismo”.

P.S. Passo a ricordare adesso uno spettacolo teatrale, un Recital in concerto, presentato al Festival del Teatro Medievale di Anagni (Frosinone) nell’agosto 2009 con Maria Rosaria Omaggio, dal titolo “Laura o Beatrice? Il mistero dell’amore”, nel quale le liriche del Canzoniere venivano messe a confronto con i versi della Divina Commedia, con i sonetti della Vita Nova e con alcune riflessioni del Convivio (direzione artistica di Giacomo Zito). Nel recital i versi bellissimi si alternavano con le stupende musiche di Albinoni, Gounod, Chopin, Bach, Schumann e Grieg, eseguite alla fisarmonica o al flauto dal Maestro Andrea Pelusi. Ha spiegato Maria Rosaria Omaggio: «Alle radici della cultura europea, due figure femminili, Laura e Beatrice, esprimono aspetti diversi del mistero dell’amore umano. C’è chi, in modo forse troppo semplicistico, le ha contrapposte: Laura è l’amore umano, Beatrice è l’amore divino. In realtà non sono figure antitetiche, ma diverse poiché diverse sono le esperienze umane e poetiche di Petrarca e Dante. Laura è la donna realmente sognata e continuamente vagheggiata. Beatrice è rivelazione dell’amore eterno che si è fatto perfezione di vita umana e anelito divino.» (vedere: www.adnkronos.com).

1 commento:

  1. Questa poesia di Petrarca è bellissima, segnalo questa risorsa:

    http://petrarca.letteraturaoperaomnia.org/parafrasi/index.html

    in cui è presente anche una parafrasi del testo.

    Saluti

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