Francesco Petrarca e Laura
Trascrivo
per voi la più nota e la più bella delle ventinove canzoni che compongono le Rime del Petrarca.
Chiare,
fresche, e dolci acque
Chiare,
fresche, e dolci acque,
ove le
belle membra
pose
colei che sola a me par donna;
gentil
ramo ove piacque
(con
sospir mi rimembra)
a lei di
fare al bel fianco colonna;
erba e
fior che la gonna
leggiadra
ricoverse
co
l’angelico seno;
aere
sacro, sereno,
ove Amor
co’ begli occhi il cor m’aperse:
date
udienza insieme
a le
dolenti mie parole estreme.
S’egli è pur mio destino,
e ’l
cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor
quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche
gratia il meschino
corpo fra
voi ricopra,
e torni
l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte
fia men cruda
se questa
spene porto
a quel
dubbioso passo:
ché lo
spirito lasso
non porìa
mai in più riposato porto
né in più
tranquilla fossa
fuggir la
carne travagliata e l’ossa.
Tempo verrà ancor forse
ch’a
l’usato soggiorno
torni la
fera bella e mansueta,
e là
’v’ella mi scòrse
nel
benedetto giorno,
volga la
vista disiosa e lieta
cercandomi;
et, o pièta!
già terra
infra le pietre
vedendo,
Amor l’inspiri
in guisa
che sospiri
sì
dolcemente che mercé m’impètre,
e faccia
forza al cielo,
asciugandosi
gli occhi col bel velo.
Da’ be’
rami scendea
(dolce ne
la memoria)
una
pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella
si sedea
umile in
tanta gloria,
coverta
già de l’amoroso nembo.
Qual fior
cadea sul lembo,
qual su
le treccie bionde,
ch’oro
forbito e perle
eran quel
dì a vederle;
qual si
posava in terra e qual su l’onde;
qual con
un vago errore
girando
parea dir: – Qui regna Amore –.
Quante
volte diss’io
allor
pien di spavento:
– Costei per fermo nacque in
paradiso! –
Così
carco d’oblio
il divin
portamento,
e ’l
volto, e le parole, e ’l dolce riso
m’aveano,
e sì diviso
da
l’imagine vera,
ch’i’
dicea sospirando:
– Qui come venn’io, o quando? –
credendo
d’esser in cielo, non là dov’era.
Da indi
in qua mi piace
quest’erba
sì, ch’altrove non ò pace.
Se tu avessi ornamenti quant’ài
voglia (il poeta si riferisce alla
canzone),
poresti
arditamente
uscir del
bosco, e gir in fra la gente.
(Sonetto CXXVI, da “Rime in vita di Madonna Laura”, nel “Canzoniere”)
In un
momento di malinconia, il poeta si reca sulle rive del fiume ove altre volte
aveva avuto modo d’incontrare e ammirare la sua amata. Laura non c’è
fisicamente ma la sua presenza appare riflettersi nelle forme della natura:
tutti i luoghi e le cose sembrano aver conservato il suo alone, sembrano esser pieni
delle sue memorie e parlare di lei. E immagina di poter morire in quei luoghi
che hanno visto la bellezza della donna amata; il ricordo di lei, così come
l’aveva veduta in riva al fiume, è però talmente forte che si sente consolato e
a questa dolce consolazione amorosa s’abbandona completamente, dimenticando
tutto – perché si trova là e
come vi è giunto – e credendo
di essere stato rapito in cielo. È la sublime forza dell’amore che tutti
conosciamo e che in assenza dell’amato può nutrirsi anche soltanto di sogni e ricordi!
Per Petrarca,
l’Amore è una forza travolgente che «saetta…
vola... minaccia… percote... ruba
per forza… invola», dalle «instabili
rote», dalle «speranze dubbiose»
e dal «dolore certo»; l’amore
agisce nelle ossa come «fuoco coperto»
e vive nelle vene come «occulta piaga».
Scrive Francesco: «Amor mi sprona in
un tempo et affrena / assecura et spaventa, arde et agghiaccia, / gradisce et
sdegna, a sé mi chiama et scaccia, / or mi tene in speranza et or in pena, / or
alto or basso il meo cor lasso mena: / onde ’l vago desir perde la traccia / e ’l
suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì novo la mia mente è piena […]»
(s. CLXXVIII del “Canzoniere”). A proposito della schiavitù creata
dall’amore–passione, si può
osservare qualcosa di simile nel sonetto
a Cino di Dante Alighieri: «Io
sono stato con Amore insieme […]
/ e so com’egli affrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme: / […] / Ben può con nuovi spron punger lo
fianco, / e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra, / seguitar si convien, se
l’altro è stanco.» (s. CXI, dalle “Rime”).
Su
Petrarca e sul significato del suo amore per Laura, in una nota alla sua
traduzione dei sonetti di Skakespeare, Giuseppe Ungaretti (1888–1970) ha scritto: «S’indugia l’amore del Petrarca a riparare le
rovine minuto per minuto, quasi insensibile alla fuga del tempo, e dando al
tempo gradualmente spazio d’infinita profondità storica, suscitando una forma,
forma terrena, bellezza nella incorruttibilità delle idee: Laura. Per lenta
variazione di luce procede il Petrarca, sino a quando l’invecchiamento
apertogli un baratro ai piedi, non avrà la luce fattasi sfolgorante e
spaventosa, svelato soprannaturali l’amore, la bellezza, l’immortalità: Laura.».
A proposito di Petrarca e di Laura, desidero anche ricordare
L’amore in sé di Marco Santagata (Guanda, Parma, 2006), nel quale si racconta
di un anziano professore di filologia, cinico e amareggiato dal dolore represso
di avere un figlio down. Nella sua «angoscia di vecchio stanco e disperato»,
che sa «quanto sia duro vivere se si è morti dentro», ha un cedimento
improvviso e s’identifica con un sonetto di Petrarca, ritrovando la nostalgia
per un rimosso amore del passato (per una figura femminile del ricordo) e
mescolando il passato col presente. Tiene all’università di Ginevra un corso di
lezioni su Petrarca e – proprio
durante una di queste lezioni –
mentre legge e commenta un sonetto e mentre l’aula risuona degli evocativi
versi dedicati a un amore perduto irrimediabilmente (quello di Petrarca per
Laura morta), viene inondato all’improvviso dal ricordo di Bubi. L’italianista
incorre allora in un lapsus freudiano che incuriosisce i suoi allievi: al posto
del nome di Laura usa quello di Bubi, il primo amore infelice e perduto, forse
sopito ma mai dimenticato. Bubi era un’esile adolescente, bionda e bellissima,
ricca e irraggiungibile, che a lui (giovanissimo quindicenne della pianura
emiliana) era apparsa con la sua carica di grazia e tenerezza in tutto simile a
una donna del “dolce Stil Novo”:
seducente e inafferrabile, alla stessa maniera enigmatica della Laura di
Petrarca. Il disincantato professore si ritrova allora a interpretare la lirica
di Petrarca alla luce della propria esistenza vile e rassegnata. E nei due
piani del romanzo, in modo assolutamente inaspettato e imprevedibile, presente
e passato, Laura e Bubi, si sovrappongono e s’intrecciano nel medesimo incanto
poetico. Su questa scia, desidero ricordare i primi struggenti e bellissimi versi
del sonetto implicato nel lapsus La vita
fugge e non si arresta un’ora (che
fa parte delle “Rime in morte di
Madonna Laura”): «La vita
fugge, e non s’arresta un’ora, / e la morte vien dietro a gran giornate, / e le
cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora; / e il
rimembrare e l’aspettare m’accora / […]» (s. CCLXXII).
Pur
essendo stato quasi contemporaneo di Dante, Petrarca è vissuto e si è mosso in
un ambiente più moderno, rinunciando al dogmatismo medievale e preferendo
l’interesse per il proprio io profondo, attento al mondo esterno. In questo
senso, si può parlare di umanesimo del poeta, poiché l’uomo – con la sua spiritualità e la sua
moralità – costituisce l’unico
oggetto di conoscenza degno d’attenzione. Figlio di un notaio fiorentino, che
aveva cognome Petracco, nacque ad Arezzo il 20 luglio del 1304 e si attribuì il
nome “Petrarca” perché lo
considerava un’elegante trasposizione latina del suo patronimico. Aveva seguito
ad Avignone il padre esule da Firenze, travolto dalla stessa tragedia politica
di Dante (del quale era amico), provocata dalla sconfitta dei Bianchi. Dopo
aver studiato la grammatica e la retorica, s’era dedicato agli studi giuridici
che in seguito rinnegò dicendo: «Nulla
può ben riuscire a dispetto del naturale. Io nacqui vago non del foro ma della
solitudine.». Si votò poi completamente agli studi umanistici e, ancora
giovane, ebbe grandi riconoscimenti e fama diffusa per il successo del poema in
latino Africa. Viaggiò moltissimo per l’Europa (anche per motivi
diplomatici), abitando per lunghi anni ad Avignone. Uomo molto religioso, visse
al seguito del cardinale Giovanni Colonna, prendendo anche gli Ordini minori per
avere quei miglioramenti di carriera e quei benefici ecclesiastici che gli
consentirono una vita discretamente agiata. Non fu attivo politicamente come
Dante (che ebbe modo di conoscere personalmente) e fu portato piuttosto alla
meditazione spirituale e all’introspezione in ritiri di campagna lontani dalla
confusione delle città: «né lieto
troppo, né mesto, assorto e notte e giorno in pace dolcissima […] di servi povero, di libri ricco».
Diceva di sé: «Non io dei civili strepiti mi diletto, non delle leggi e delle
armi, ma alla solitudine e all’ozio son nato». Malinconico e riflessivo, era
anche inquieto e consapevole della caducità delle cose del mondo. Ambiva a una
serena stabilità, al dominio delle passioni, all’educazione dello spirito e a
un forte controllo etico, e considerava l’uomo come l’unico artefice del suo
destino e della sua felicità. Per questi motivi, volle dare di sé un’immagine
di perfezione assoluta, così da servire come modello d’imitazione. Nonostante
tutto, però, era ambizioso dal punto di vista mondano, assetato di nuove
esperienze e desideroso di successo.
Credeva
che il latino fosse la lingua nobile; scrisse pertanto in latino moltissime
opere di cultura filologica, tra le quali il poema epico già ricordato al quale
aveva affidato tutte le sue aspettative di gloria imperitura. Il 6 Aprile del
1327 nella Chiesa d’Avignone, Petrarca conobbe Laura e l’amò sino alla sua
morte (avvenuta nel 1348 a causa della peste) e per altri dieci anni dopo la sua
scomparsa; scriveva: «Voglia mi
sprona, Amor mi guida et scorge, / Piacer mi tira, Usanza mi trasporta, /
Speranza mi lusinga et riconforta / et la man destra al cor già stanco porge: /
e ’l misero la prende, et non s’accorge / di nostra cieca et disleale
scorta: / regnano i sensi, et la
ragione è morta; / de l’un vago desio l’altro risorge. / […] / Mille trecento ventisette, a punto / su
l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto intrai, nè veggio ond’esca.»
(s. CCXI dal “Canzoniere”). Si trattava probabilmente di Laura de Noves,
andata sposa a Ugo de Sade: l’amore fu reale ma quasi certamente non ricambiato
e divenne il nucleo centrale della poetica del poeta. Come Beatrice, piuttosto che
una donna, Laura è un ideale femminile vero e proprio, forse soltanto il
pretesto per esprimere il proprio mondo sentimentale e la propria interiorità.
In effetti, non ha nessuna importanza se Laura abbia ricambiato o no questo
sentimento o se sia stata soltanto un fantasma d’amore che viveva la sua
stupenda vita esclusivamente nei versi di Petrarca. Quanti di noi non hanno
amato spesso null’altro che un sogno, null’altro che l’immagine di un istante?
Scriveva di lui l’inquieto poeta astigiano Vittorio Alfieri (1749–1803), anch’egli ispirato dall’amore
(quello per la contessa d’Albany): «gentil
d’amore mastro profondo». E il poeta inglese George Byron, meglio noto
come Lord Byron (1788–1824), ebbe il modo di dire «Se Laura fosse stata la
moglie del Petrarca, pensate | che lui avrebbe scritto sonetti tutta la vita?».
Com’è vero purtroppo: la quotidianità e l’abitudine dissolvono qualsiasi amore
travolgente!
Nel 1341
Francesco fu incoronato poeta sul Campidoglio, ricevendo il riconoscimento ufficiale
della laurea poetica e raggiungendo quel che era stato il grande scopo della
sua vita. Fu incline alle relazioni amorose passeggere: da due diversi rapporti
sentimentali ebbe i figli Giovanni (1337) e Francesca (1342), che gli restò
vicina con la sua famiglia per tutta la vita. Durante gli ultimi quattro anni
della sua esistenza, il poeta visse in una residenza campestre ad Arquà sui
colli Euganei, in una «modesta e
graziosa villetta» con un uliveto e una vigna, che gli era stata
regalata dal mecenate padovano Francesco di Carrara. Nonostante il prevalente interesse
per il latino, scrisse in volgare il Trionfo dell’Eternità. Morì
improvvisamente il 19 luglio del 1374 per una sincope e venne sepolto in Arquà,
secondo il suo desiderio.
Pur
considerando il latino la lingua colta e nobile e pur ostentando uno scarso
interesse per i problemi del volgare, Petrarca è diventato grande cantando
l’amore per Laura in quelle Rime, scritte in volgare (che in fondo al
cuore disprezzava), alle quali lungo tutto il corso della sua vita aveva
dedicato novità di sperimentazione, cura stilistica e attento lavoro di
limatura. Si trattava di rime sparse e di frammenti lirici, che alla maniera di
Catullo chiamava “nugae” (letteralmente
“inezie”) e che aveva cercato di organizzare nel “Canzoniere” nelle due sezioni
in vita e in morte di Madonna Laura, separate dalla canzone Io vo pensando, et nel penser m’assale: «I’
vo pensando, et nel penser m’assale / una pietà sì forte di me stesso, / che mi
conduce spesso / ad altro lagrimar ch’i’ non soleva: / ché, vedendo ogni giorno
il fin più presso, / mille fïate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del
mortale / carcer nostro intelletto al ciel si leva. / […]». Talora alterò la
cronologia temporale in modo che i sonetti venissero a costituire quasi un
diario personale, in grado di esprimere pienamente il passaggio da un futile
amore terreno alla catarsi cristiana di un’anima, tesa come un arco tra realtà
e ideale. Si conoscono due edizioni dell’opera, entrambe approvate dall’autore:
una prima che comprendeva 215 composizioni liriche, e una seconda che ne
conteneva invece 366.
Combattuto
tra sogno e realtà, tra solitudine e mondanità, tra amor terreno ed estasi
divina, tra entusiasmo per i classici e istanze cristiane, con la sua
problematicità esistenziale, Petrarca riuscì a superare l’artificiosità del
dolce “Stil Novo” e a creare le nuove basi per una poesia più moderna. Ebbe una
fortuna poetica immensa esercitando un fascino straordinario: le sue poesie
d’amore sono state imitate sino ai giorni nostri, creando quella imperitura
corrente poetica chiamata “Petrarchismo”.
P.S. Passo a ricordare adesso uno spettacolo teatrale, un Recital in
concerto, presentato al Festival del Teatro Medievale di Anagni (Frosinone) nell’agosto
2009 con Maria Rosaria Omaggio, dal titolo “Laura o Beatrice? Il mistero dell’amore”,
nel quale le liriche del Canzoniere venivano
messe a confronto con i versi della Divina
Commedia, con i sonetti della Vita
Nova e con alcune riflessioni del Convivio
(direzione artistica di Giacomo Zito). Nel recital i versi bellissimi si
alternavano con le stupende musiche di Albinoni, Gounod, Chopin, Bach, Schumann
e Grieg, eseguite alla fisarmonica o al flauto dal Maestro Andrea Pelusi. Ha
spiegato Maria Rosaria Omaggio: «Alle radici della cultura europea, due figure
femminili, Laura e Beatrice, esprimono aspetti diversi del mistero dell’amore
umano. C’è chi, in modo forse troppo semplicistico, le ha contrapposte: Laura è
l’amore umano, Beatrice è l’amore divino. In realtà non sono figure
antitetiche, ma diverse poiché diverse sono le esperienze umane e poetiche di
Petrarca e Dante. Laura è la donna realmente sognata e continuamente vagheggiata.
Beatrice è rivelazione dell’amore eterno che si è fatto perfezione di vita
umana e anelito divino.» (vedere: www.adnkronos.com).
Questa poesia di Petrarca è bellissima, segnalo questa risorsa:
RispondiEliminahttp://petrarca.letteraturaoperaomnia.org/parafrasi/index.html
in cui è presente anche una parafrasi del testo.
Saluti