“Primo
amore” è un piccolo grande racconto di
Ivàn Turgenev (Orel, Russia, 1818-1883)
che si muove sul filo rosso dell’autobiografia, nel quale Vladimir Petrovic
racconta per iscritto agli amici il suo primo amore, che è stato «effettivamente
tra i non comuni».
Il sedicenne Volodja, innocente e ingenuo,
vive in una dacia in campagna e conosce una vicina di casa ventunenne, l’affascinante
principessina Zinaida, nata dal matrimonio dell’umile figlia di un commesso con
un principe rovinato dal gioco e da speculazioni sbagliate. Le due donne vivono
in una povera casa in affitto, in mezzo a grandi difficoltà economiche. La
ragazza, che aspirerebbe a vivere liberamente e che ama essere corteggiata, è
circondata da diversi uomini, giovani e meno giovani, tutti innamorati di lei,
tra i quali Belovzorov, un ragazzone ruvido e serio che l’ha chiesta in sposa
ma inutilmente. Volodja s’innamora perdutamente – come soltanto ci si può
innamorare a sedici anni – della giovane donna, che ora lo illude ora lo
respinge. Con la sua sensibilità esasperata si accorge ben presto che Zinaida è
innamorata di un altro; disperato e geloso, scopre con angoscia che ha una
relazione col padre Pjotr, che Volodja ama teneramente ma che anche teme per il
carattere severo e mutevole. La madre – ricca e molto più anziana del marito –
scopre la relazione, e Volodja ritorna in città insieme ai genitori. Due anni
dopo il padre muore appena quarantaduenne per un colpo apoplettico e, quattro
anni dopo, Volodja scopre che Zinaida si è sposata e che è morta di parto. Il
racconto è così bello che ho cercato di farne una sintesi antologica, nel
tentativo di farne assaporare appieno il gusto romantico!
La storia
si svolge nell’estate del 1833, in una dacia signorile presa in affitto; Volodja si stava preparando per l’ammissione
all’università, studiando pochissimo e senza affrettarsi: «Nessuno limitava la
mia libertà. Facevo quel che volevo […] Mio padre mi trattava con indifferenza
e dolcezza; la mamma quasi non mi rivolgeva l’attenzione, benché, tranne me,
non avesse altri figli: l’assorbivano altre preoccupazioni. Mio padre, un uomo
ancora giovane e molto bello, l’aveva sposata per interesse; lei gli passava
dieci anni. La mamma conduceva una vita triste: si agitava continuamente, si
consumava di gelosia, si arrabbiava –
ma mai in presenza di mio padre; ne aveva molta paura e lui si comportava in
maniera rigida, fredda e distaccata. Non ho mai visto un uomo più
squisitamente tranquillo, sicuro di sé e dispotico.». Il sangue del ragazzo scorreva
veloce e il cuore mi doleva in modo dolce e ridicolo: «[…] aspettavo tutto, mi
intimidivo di qualcosa e mi meravigliavo di tutto, stavo sul chi vive; la
fantasia lavorava e correva rapida intorno alle stesse idee, come all’alba i
rondoni intorno al campanile; […] Ricordo, in quel tempo, l’immagine di una
donna; il miraggio dell’amore femminile non affiorava quasi mai nella mia mente
con contorni definiti; in tutto ciò che pensavo, che sentivo, si nascondeva un
presentimento semicosciente, pudico, di qualcosa di nuovo, di indicibilmente
dolce, di femminile… Questo presentimento, questa attesa penetrava tutto il mio
essere: io la respiravo, risuonava per le mie vene, in ogni goccia di sangue…
era destino che presto si realizzasse.».
Tre
settimane dopo il padiglione di destra (che era vuoto) veniva preso in affitto
dalla principessa Zasekina, molto povera. Così Volodja la vide la prima volta: «Ad alcuni passi da me, nel
praticello, tra cespugli verdi di lampone, c’era una fanciulla alta e slanciata
con un vestito striato rosa ed un fazzolettino bianco sulla testa; le si
affollavano intorno quattro giovani e lei, a turno, dava loro un colpetto sulla
fronte con dei fiorellini grigi dei quali non so il nome ma che sono
conosciutissimi dai bambini; […] avrei dato tutto il mondo perché quelle
piccole ed adorabili dita colpissero anche la mia fronte. Il fucile mi scivolò
sull’erba, dimenticai tutto; divoravo con gli occhi il corpo armonioso, il
collo, le belle mani, i capelli biondi un poco arruffati sotto il fazzolettino
bianco, gli occhi socchiusi e intelligenti, le ciglia e, sotto di esse, le
guance delicate… In quello stesso momento anche la fanciulla si girò… Vidi due
enormi occhi grigi su un viso mobile e
vivace – e questo viso di colpo
cominciò tutto a tremare, a ridere, vi balenarono dei denti bianchi, le
sopracciglia si sollevarono in maniera buffa… arrossii, raccolsi da terra il
fucile e, inseguito da una risata squillante ma non cattiva, fuggii nella mia
camera, mi gettai sul letto e chiusi il viso tra le mani. Il cuore mi batteva
forte; provavo una grande vergogna e una gran gioia: sentivo un’agitazione
straordinaria.».
La mamma di
Volodja, che aveva ricevuto una
lettera scritta in una lingua sgrammaticata dalla principessa, mandò il ragazzo
per pregarla di favorire da lei verso l’una. Si realizzavano imprevedibilmente e
rapidamente i desideri segreti di Volodja,
che lo rallegravano e spaventavano. Volodja
si presentò alla principessa Zasekina e le illustrò l’impegno della madre, riferendole
l’invito a prendere il tè da lei: «In quel momento, si aprì di colpo l’altra
porta del salotto e sulla soglia comparve la fanciulla che avevo visto il
giorno prima nel giardino. Mi diede la mano e sul suo viso balenò un
sorrisetto. […] Approfittai del fatto che non sollevava gli occhi e cominciai
ad osservarla, da prima di soppiatto poi sempre più arditamente. Il suo viso mi
sembrava ancora più affascinante del giorno prima: tutto in esso era così
delicato, intelligente e caro. […] La osservavo: come mi era cara e vicina! Mi
sembrava di conoscerla da chissà quanto tempo e, prima di averla conosciuta, di
non aver saputo niente, di non aver vissuto… indossava un vestito scuro, ormai liso,
con un grembiule. Avrei carezzato volentieri ogni piega di quel vestito e di
quel grembiule. Di sotto il vestito comparivano le punte degli stivaletti: con
venerazione mi sarei inginocchiato ai suoi piedi… “Ecco, sono seduto davanti a
lei – pensavo – l’ho conosciuta… che
felicità! dio mio!”. Per poco non cascai giù dalla sedia per l’entusiasmo, ma
dondolai solo un poco le gambe, come un bambino che gode. Stavo bene, come un
pesce nell’acqua, e per l’eternità non mi sarei mosso da quella stanza, non avrei
abbandonato quel posto.».
All’improvviso era entrato Belovzorov, «un
giovane biondo e ricciuto, un ussaro con la faccia vermiglia e gli occhi
sporgenti», portando un gattino che aveva
attirato tutta l’attenzione di Zinaida. Volodja ritornò a casa molto
triste, sforzandosi di non piangere perché era geloso dell’ussaro. Volodia restava sempre affascinato dal «baccano
indiavolato», dall’«allegria
senza cerimonie» e dai «rapporti
insoliti con gente sconosciuta» che lo coinvolgevano durante le riunioni serali
in casa di Zinaida e che lo facevano ubriacare come per il vino. Una notte al
ritorno da una di queste serate indimenticabili, aveva spento la candela ma non
riusciva a dormire: «Mi sedetti su una sedia e me ne stetti lì
incantato. Ciò che provavo era così nuovo e così dolce… Me ne stavo seduto,
immobile, e, girando appena lo sguardo intorno, respiravo lentamente; ora
ridevo in silenzio, ricordando, ora mi sentivo gelare al pensiero che ero
innamorato, che, ecco, era lui, l’amore. Il viso di Zinaida mi ondeggiava
davanti nell’oscurità – senza
scomparire mai; le sue labbra sorridevano sempre in quel modo enigmatico, gli
occhi mi osservavano un poco di traverso, interrogativi, pensierosi e teneri…
come nell’istante in cui mi ero separato da lei. […] Sentivo una grande
stanchezza e quiete… ma l’immagine di Zinaida continuava a correre
trionfante per la mia anima. […] Oh, dolci sentimenti, dolci suoni, bontà e
tranquillità di un’anima commossa, gioia struggente dei primi intenerimenti
dell’amore, dove siete? Dove siete?»
Volodja amava il padre di un amore
negato: «Mio padre aveva un’influenza straordinaria su di me e straordinari
erano i nostri rapporti. Non si occupava quasi della mia educazione e non mi
offendeva mai, rispettava la mia libertà e con me era anche gentile, solo che
non mi faceva arrivare sino a lui. Lo amavo e lo ammiravo, rappresentava per me
l’immagine del vero uomo, e, dio mio, come mi sarei attaccato appassionatamente
a lui se non avessi sentito continuamente le sue mani che mi respingevano! […] Più
tardi, riflettendo sul suo atteggiamento, giunsi alla conclusione che aveva ben
altro che me e la vita familiare; amava altro e di questo altro godeva
completamente. «Prendi quello che puoi ma non lasciarti trascinare; essere
indipendenti, ecco tutto il gioco della vita», mi disse una volta. […] Mio
padre, prima di tutto e più di tutto voleva vivere, e viveva. Forse aveva il
presentimento che non gli sarebbe toccato a lungo di godere della sua “parte”
di vita: è morto a quarantadue anni.».
Volodja amava ormai
irrimediabilmente: «La mia “passione” iniziò da quel giorno. Ricordo che
sentivo allora qualcosa di simile a quello che deve provare uno che ottiene un
impiego: avevo cessato di essere un ragazzetto, ero innamorato. Ho detto che da
quel giorno iniziò la mia passione; potrei aggiungere che da quello stesso
giorno iniziarono anche le mie sofferenze. In assenza di Zinaida languivo: non
mi entrava in testa niente, mi cadeva tutto di mano, per giorni interi pensavo
intensamente a lei… languivo… e in sua presenza le cose non andavano certo
meglio. Ero geloso, ero cosciente della mia nullità, da sciocco mettevo il muso
e da sciocco mi umiliavo – e
tuttavia una forza invincibile mi trascinava da lei – e ogni volta varcavo la soglia della sua camera con un brivido
involontario di felicità. Zinaida aveva indovinato subito che mi ero innamorato
di lei ed io non pensavo a nasconderlo; si divertiva della mia passione, si
burlava di me, mi vezzeggiava e mi tormentava. è dolce essere l’unica fonte, la causa dispotica e modesta
delle più grandi gioie e del più profondo dolore per un altro – nelle mani di Zinaida ero come cera
molle. Del resto, non ero il solo a esserne innamorato: tutti gli uomini che
frequentavano la sua casa avevano perso la testa per lei e lei li teneva in
pugno, ai suoi piedi. […] In tutto il suo essere, vivo e bello, c’era un
miscuglio particolarmente affascinante di astuzia e noncuranza; […] Sì, Zinaida
si burlava molto di me. Per tre settimane la vidi ogni giorno – e cosa, cosa non faceva con me! […]
ero tutto preso da un sentimento indefinibile, in cui c’era di tutto: e la tristezza,
e la gioia, e il presentimento del futuro, e il desiderio, e la paura della
vita. Ma allora non capivo niente di tutto questo e non ero capace di dare un
nome a quello che mi si stringeva dentro –
o meglio, gli avrei dato un solo nome: Zinaida. Zinaida giocava sempre con me,
come una gatta col topo. Ora civettava con me – ed io mi agitavo e mi sdilinquivo – ora di colpo mi respingeva – ed io non osavo avvicinarla né guardarla.».
Un giorno
Volodja in giardino incontrò Zinaida
seduta sull’erba, immobile; avrebbe voluto allontanarsi ma lei aveva alzato il
viso pallido mostrando una tristezza così grave e una stanchezza così profonda che
il cuore gli si strinse e in quel momento gli sembrò che avrebbe dato
volentieri la sua vita per lei, purché non si disperasse. Zinaida si fece leggere da Volodja i versi
di una famosa poesia d’amore di Puškin che recitavano: «Non amare non si può», e gli disse
che un giorno avrebbe saputo. A Volodja
balenò il pensiero che fosse innamorata: «Dio mio! è innamorata!». I suoi veri tormenti iniziarono allora: «Avevo
perso la testa; pensavo, ripensavo e con insistenza osservavo Zinaida, anche se
di nascosto, per quanto possibile. In lei c’era stato un cambiamento – era evidente. Andava a passeggiare
a lungo da sola. Talvolta non si mostrava agli ospiti; se ne stava per ore
intere in camera sua. Prima non le accadeva mai. Io ero diventato tutto d’un
tratto straordinariamente perspicace o almeno così mi sembrava. […] Dopo poco
andai a casa. “è innamorata”,
mormorarono involontariamente le mie labbra. “Ma di chi?”».
Passavano
i giorni e Zinaida diventava sempre più strana. Una volta Volodja le aveva visto il viso
bagnato di lacrime: «Le lacrime di Zinaida mi avevano fatto perdere la testa;
decisamente non sapevo cosa pensare ed ero pronto a piangere: ero proprio un
bambino, nonostante i miei sedici anni. […] Non pensavo a niente e a nessuno.
Avevo perso la testa e cercavo sempre luoghi solitari. Mi piacevano in modo
particolare le rovine della serra. Arrampicatomi sull’alto muro, seduto come un
giovane infelice, solo e triste, mi accadeva di sentire pietà per me stesso; mi
piacevano tanto questi sentimenti tristi, me ne ubriacavo!». Un giorno Zinaida lo aveva sfidato a saltare dall’alto
di quel muro, se veramente l’amava, e Volodja si era buttato giù senza pensarci
un istante. Cadendo aveva perso i sensi e, quando era rinvenuto, con tenerezza
allarmata, Zinaida gli stava dicendo che l’amava: «Il suo petto ansimava vicino
al mio, le sue mani mi toccavano la testa e, all’improvviso – cosa mi succedeva! – le sue labbra tenere e fresche
cominciarono a coprire il mio viso di baci… sfiorarono le mie labbra…, ma a
questo punto Zinaida certo indovinò dall’espressione del mio viso che, anche se
non aprivo gli occhi, ero tornato in me […] Mi alzai. […] Non finì la frase ed
andò via spedita, mentre io mi sedetti un momento sulla strada… le gambe non mi
reggevano. Le ortiche mi avevano punto le braccia, mi doleva la schiena e mi
girava la testa; ma il senso di beatitudine che provai allora non si è ripetuto
mai più nella mia vita. Era iniziato con un dolce dolore per tutte le membra ed
era terminato, infine, con salti ed esclamazioni di entusiasmo. Proprio così:
ero ancora un bambino. Per tutto il giorno fui così allegro e fiero, conservavo
così viva sul mio viso l’impressione dei baci di Zinaida, con un brivido di
estasi ricordavo ogni sua parola e così accarezzavo la mia inattesa felicità da
aver persino paura; non avevo neppure il desiderio di vedere lei, la colpevole
di queste nuove sensazioni. Mi pareva di non poter esigere più niente dal
destino, che ora si sarebbe dovuto prendere, tirare un ultimo sospiro, e poi
morire.».
La
mattina seguente Voldja si era alzato presto e aveva vagato a lungo per le
montagne e per i boschi: «non mi sentivo felice; ero uscito di casa con l’intenzione
di darmi alla malinconia ma la gioventù, il tempo meraviglioso, l’aria fresca,
il piacere della veloce camminata, la delizia di stendersi da solo sull’erba
fitta mi presero tutto: il ricordo di quelle indimenticate parole, di quei
baci, mi stringeva l’anima». Un giorno, il ragazzo sentì risuonare per una stradina
il rumore sordo di zoccoli di cavalli e vide suo padre e Zinaida che
procedevano vicini: «Mio padre le stava dicendo qualcosa, girato verso di lei
con tutto il corpo e con una mano poggiata sul collo del cavallo; sorrideva.
Zinaida lo ascoltava in silenzio, con gli occhi gravemente abbassati e le
labbra serrate. Da prima vidi solo loro; appena dopo qualche attimo, dalla
curva della valle, comparve Belovzorov in uniforme da ussaro […] Mio padre tirò
le briglie e si allontanò da Zinaida, lei sollevò lentamente lo sguardo verso
di lui ed entrambi si lanciarono al galoppo… Belovzorov volò dietro di loro,
facendo risuonare la sciabola. “Lui è rosso come un gambero” – pensai – “ma lei… perché è così pallida? Ha cavalcato tutta la mattina
ed è pallida?”».
Per sei
giorni successivi Zinaida si disse malata e fece di tutto per sfuggire il
ragazzo: «Involontariamente mi voltava le spalle… involontariamente; ecco cosa
mi era amaro, cosa mi rattristava! Ma non c’era niente da fare, cercavo di non
finirle a tiro e la spiavo da lontano, cosa che non sempre mi riusciva. Come
prima, le era successo qualcosa di incomprensibile; il suo viso era diverso,
era tutta diversa.». Tre giorni dopo la incontrò nel giardino e lei lo trattò
con dolcezza e gli disse che era un po’ stanca e che doveva amarla ma non come
prima, soltanto come un amico; gli diede poi «un bacio pulito e tranquillo»,
chiamandolo mio paggio: «Tutto confuso mi incamminai dietro di lei. “Questa
fanciulla mite ed assennata”, –
pensavo, – “è davvero la stessa
Zinaida che conoscevo?”. La sua andatura mi sembrava più tranquilla, tutta la
sua figura più maestosa ed armoniosa… Dio mio! Con quale nuova forza divampava
in me l’amore!».
Un giorno, dopo pranzo, alla presenza di
tutti i suoi giovani corteggiatori e di Volodja, Zinaida per pegno raccontò una
sorta di fiaba che nascondeva la storia di un amore impossibile – quello che
lei stava vivendo dolorosamente – e che accennava a una regina, che era
circondata da ospiti nobili ed eleganti, ma pensava sempre e soltanto a un uomo
che l’aspettava nel buio, vicino a una fontana, colui che amava e che la
dominava: «Non ha un vestito ricco né pietre preziose, nessuno lo conosce ma mi
aspetta ed è sicuro che io andrò, –
ed io andrò e non c’è alcun potere che potrà fermarmi quando deciderò di andare
da lui, di rimanere e di perdermi con lui, là, nell’oscurità del giardino, tra
il fruscio degli alberi ed il mormorio della fontana…». Volodja intuiva l’allusione
celata e si chiedeva chi fosse quell’uomo segreto di Zinaida: «“Un’avventuriera”, aveva detto tra sé una volta mia
madre. Un’avventuriera lei, il mio idolo, la mia dea! Questa parola mi
scottava, cercavo di sfuggirla sotto il cuscino, mi indignavo e, nello stesso
momento in cui disapprovavo, cosa non avrei dato per essere quel fortunato
vicino alla fontana!…».
E una
volta era andato di notte nel giardino, accanto alla fontana, e aveva sentito
un fruscio: «Cos’era? Li avevo sentiti davvero i passi o era il mio cuore che
batteva? – Chi è? – balbettai in maniera appena
percepibile. E cos’era di nuovo? Risate soffocate?… o il fruscio delle foglie… o un respiro proprio nell’orecchio?
Cominciavo ad aver paura… – Chi
c’è? – ripetei a voce ancora
più bassa. […] Io aspettai, aspettai e infine me ne tornai nella mia camera, al
mio letto diventato freddo. Sentivo un’agitazione straordinaria: proprio come
se fossi andato a un incontro e fossi rimasto solo, passando accanto alla
felicità altrui.».
Sempre più geloso dell’uomo sconosciuto,
Volodja prese un coltellino e di notte ritornò nuovamente in giardino per
tentare di cogliere l’amante di Zinaida: «Dei passi rapidi, leggeri e
guardinghi risuonavano chiaramente nel giardino. “Eccolo… Eccolo, finalmente!”
mi balenò nel cuore; cavai fuori convulsamente il coltello dalla tasca,
convulsamente lo aprii – quali
scintille rosse mi mulinavano negli occhi, dal terrore e dalla collera mi si
rizzarono i capelli… I passi si dirigevano verso di me; mi curvai verso di essi…
Comparve un uomo… dio mio! Era mio padre! Lo riconobbi subito, sebbene fosse
tutto imbacuccato in un mantello scuro e avesse il cappello calato sul viso. Mi
passò accanto in punta di piedi. Non mi notò anche se non ero nascosto da
niente, ma ero così rattrappito e raggrinzito che mi si confondeva
probabilmente con la terra stessa. Da Otello, geloso e pronto ad uccidere, mi
ero trasformato in uno scolaretto… […] Dal terrore, avevo lasciato cadere il
coltello per terra ma neanche mi misi a cercarlo: ero pieno di vergogna. Di
colpo rinsavii.».
La
mattina dopo Volodja si era alzato con il mal di testa e la sera stessa pianse
tra le braccia di Zinaida con un tale impeto da spaventarla, dicendole che
sapeva tutto, che si era presa gioco di lui, e che a nulla serviva il suo
amore: « – Sono colpevole
davanti a voi, Volodja – uscì a
dire Zinaida. – Ah, quanto sono
colpevole… – aggiunse e strinse
le mani. – Quanto c’è di
brutto, di oscuro, di cattivo in me… Ma io non mi faccio gioco di voi, io vi
amo. Voi neanche sospettate perché e come… o forse lo sapete? Cosa potevo
dirle? Stava davanti a me e mi guardava, ed io le appartenevo completamente,
dalla testa ai piedi, non appena mi guardava… […] Faceva con me tutto quel che
voleva.».
Iniziò
per il ragazzo un periodo strano e febbrile, «una specie di caos nel quale si
mescolavano vorticosamente i sentimenti, i pensieri, le congetture, i desideri,
le gioie e le passioni più contrastanti»; aveva paura di guardare in se stesso
e di dare una risposta a tutto; aveva solo fretta di vivere ma la notte dormiva
perché lo aiutava la spensieratezza infantile: «Non volevo sapere se ero amato
e non volevo confessarmi di non essere amato». Un forte colpo improvviso pose
fine a tutto e lo gettò su una nuova strada. Volodja apprese da un domestico che una terribile scenata era accaduta
tra i suoi genitori a causa della relazione del padre con la giovane
principessa, rivelata alla madre da una lettera anonima: «Non
scoppiai a piangere né mi diedi alla disperazione; non mi chiesi come e quando
fosse accaduto tutto questo né mi meravigliai di non aver indovinato tutto
prima, da tempo; non me la presi neanche con mio padre… Ciò che avevo saputo
era al di sopra delle mie forze: questa scoperta improvvisa mi aveva
schiacciato… Era finito tutto. Tutti i miei fiori erano stati strappati di
colpo e giacevano intorno a me sparsi e calpestati.».
Il giorno
dopo la mamma annunciò che si sarebbero trasferiti in città, ad Arbat, ove
avevano una casa e il padre andò da lei in camera da letto e rimasero a lungo
da soli: «Tutto venne fatto con tranquillità, senza fretta, la mamma ordinò
pure di riverire la principessa e di farle presente il suo dispiacere, ma le condizioni
di salute non le consentivano di andarla a trovare prima della partenza. Io
vagavo come uno sbandato e speravo solo che tutto finisse al più presto. Solo
una cosa non riuscivo a capire: come aveva potuto lei, una fanciulla giovane,
una principessina, risolversi a un simile atto, sapendo che mio padre non era
un uomo libero e avendo la possibilità di sposare, per esempio, Belovzorov? In
cosa sperava? Come non aveva avuto paura di rovinare tutto il proprio futuro?».
Volodja rifletté che quello era l’amore, quella era la passione, quella la
dedizione… Volle salutare Zinaida per l’ultima volta e lei comparve in un abito
scuro, pallida e con i capelli sciolti; lo pregò di non pensare che fosse malvagia,
anche se certe volte lo aveva fatto soffrire. Volodja cominciò a tremare come
in passato «sotto l’influenza di un fascino irresistibile, inesprimibile» e le
disse: «Credetemi, Zinaida Aleksandrovna, qualunque cosa abbiate fatto, in
qualunque modo mi abbiate fatto soffrire, io vi amerò e vi adorerò fino alla
fine dei miei giorni. Si voltò rapidamente verso di me e, spalancate le
braccia, mi abbracciò e mi baciò forte e con calore. Dio sa questo lungo bacio
d’addio a chi fosse destinato ma io ne gustati con avidità la dolcezza. Sapevo
che non si sarebbe ripetuto mai più. –
Addio, addio, – insistevo. Lei
si allontanò e andò via. Anch’io me ne andai. Non sono in grado di riferire la
sensazione che mi aveva preso. Non desidererei che si ripetesse un’altra volta
ma mi considererei infelice se non l’avessi mai provata. Ci trasferimmo in
città. Non mi sbarazzai subito del passato né subito mi misi a studiare. La mia
ferita si rimarginava lentamente; contro mio padre non nutrivo alcun sentimento
cattivo. Anzi: ai miei occhi era come cresciuto… ma lasciamo agli psicologi di
spiegare, come sanno, questa contraddizione.».
Un
giorno, durante una loro passeggiata a
cavallo, Volodja e il padre si erano persi di vista, e davanti alla
finestrella di una casetta di legno il ragazzo vide il padre voltato di schiena
che parlava con una donna vestita di scuro: era Zinaida: «Mi misi a osservare e
cercavo di sentire. Sembrava che mio padre volesse far valere la sua opinione
su qualcosa e che Zinaida non fosse d’accordo. Come fosse ora, vedo il suo
viso: triste, serio, bello e con un tratto indescrivibile di devozione, di
malinconia, di amore e di una certa disperazione – non posso scegliere un’altra parola. Parlava a monosillabi,
teneva gli occhi bassi e sorrideva appena, rassegnata e ostinata. Solo da
questo sorriso riconobbi la mia Zinaida di una volta. Mio padre alzò le spalle
e si aggiustò il cappello, cosa che in lui era sempre segno di impazienza…». Irritato,
il padre aveva improvvisamente alzato il frustino, e aveva dato un colpo secco
sul braccio nudo di Zinaida: «Zinaida sussultò, guardò in silenzio mio padre, e
levando lentamente il braccio alle labbra, baciò la ferita che vi si era
aperta. Mio padre gettò via il frustino e, volando veloce sui gradini, irruppe
nella casa… Zinaida si girò, tese il braccio, mandò indietro la testa e si
allontanò anch’essa dalla finestra. Con quale spavento, con quale terribile
sconcerto nel cuore mi gettai indietro […] Guardavo con aria stupida il fiume e
non mi rendevo conto che mi scendevano le lacrime. “La battono, – pensavo, – la battono… la battono”». Volodja raggiunse il padre che stava
con la testa china «e allora, per la prima e forse anche l’ultima volta, mi
resi conto di quanta tenerezza e quanto dispiacere potessero esprimere i suoi
tratti severi». Il ragazzo si mise a correre
tentando di raggiungerlo ma non ci riuscì: «Ecco, questo è amore, – mi dissi nuovamente, seduto di
notte davanti alla mia scrivania, sulla quale già cominciavano a comparire
libri e quaderni, – questa è
passione!… Come non indignarsi, come tollerare un colpo da chiunque sia!… dalla
mano più cara! Ma certo è possibile se si ama… Ma proprio io… immaginavo… L’ultimo
mese mi aveva invecchiato molto e il mio amore, con tutte le sue agitazioni e
passioni, finì per sembrare piccolo, infantile e misero davanti a quell’altro,
sconosciuto, che potevo appena indovinare e che mi aveva spaventato, come un
volto estraneo, bello ma minaccioso, che ci si sforzi invano di distinguere
nella penombra. […]
Due mesi
dopo entrai all’università e dopo sei mesi mio padre morì (per un colpo) a Pietroburgo,
dove si era appena trasferito con me e mia madre. […] La stessa mattina del
giorno in cui ebbe il colpo, aveva iniziato una lettera in francese per me. “Figlio
mio, – mi scriveva, – abbi timore dell’amore delle donne,
di questa felicità, di questo veleno…”.».
Dopo quattro anni, Volodja venne a sapere
che la principessina Zasekina aveva sposato un uomo benestante e che aspettava
un bambino; dopo qualche settimana, quando era andato a trovarla nel suo
albergo, era venuto però a sapere che era morta di parto: «Fu
come se qualcosa mi colpisse nel cuore. Il pensiero che avrei potuto vederla,
che non l’avevo vista e che non l’avrei vista mai più, questo amaro pensiero si
fece strada in me con tutta la forza di un inoppugnabile biasimo. “è morta”, ripetevo, guardando inebetito
il portiere; uscii quieto nella strada e camminai senza sapere dove andavo.
Tutto il passato d’un tratto venne a galla e mi si presentò davanti. Ed ecco
come si era risolta, a cosa aveva teso, correndo e agitandosi, tutta quella
vita giovane, ardente e brillante! (…) O gioventù! gioventù! Non ti curi di
nulla, come se possedessi tutti i tesori del mondo, anche la malinconia ti
rallegra, anche la tristezza ti sta bene; sicura e insolente dici: guardate! Io
sola vivo; ma i giorni per te arrivano e scompaiono senza traccia e senza
calcolo e tutto in te si scioglie come la cera al sole, come la neve… E forse,
il segreto del tuo splendore sta non nella possibilità di fare tutto ma nella
possibilità di pensare che farai tutto, nel fatto che getti al vento le forze
che non saresti capace di usare altrimenti, nel fatto che ognuno di noi si
considera seriamente uno scialacquatore e seriamente ritiene suo diritto dire: “Oh,
che cosa avrei fatto se non avessi perduto il mio tempo invano?”. Ed anche io…
cosa speravo, cosa mi aspettavo, quale ricchezza futura prevedevo quando
seguivo con un sospiro, con una sensazione triste, il miraggio – sorto per un attimo – del mio primo amore? E cosa si è
realizzato di tutto ciò che avevo desiderato? Anche ora, quando ormai cominciano
a scendere sulla mia vita le ombre della sera, cosa mi è rimasto di più fresco
e più caro se non il ricordo di quel breve temporale mattutino di primavera? […]».
[Da “Primo amore”,1860, traduzione di Rosa Mauro,
Sellerio editore, Palermo 1983]
Ed ecco
un racconto del primo amore e “un assaggio” di pagine di superba bellezza,
scritte da un grande autore classico! La conclusione del romanzo è
profondamente leopardiana: tutti noi viviamo rimpiangendo i dolci inganni e gli
ingenui sentimenti dei giovanili anni perduti. Tutti noi viviamo l’acuta
nostalgia di ciò che è irrimediabilmente perduto, ma soprattutto del nostro primo
«ragionar d’amore», dei primi timidi sguardi, delle prime estatiche emozioni. L’adolescente
Volodja, dal cuore ardente e dalla mente sognante, è rappresentato con forte
verità di sentimenti e con approfondimento psicologico notevole. Quanti di noi
possono non riconoscersi in lui, nei suoi teneri sentimenti amorosi, prima
esaltati e poi delusi? La descrizione di Zinaida – donna luminosa e oscura, bella e civettuola, ricca di giovanile
incanto femminile, molto consapevole della forza del suo fascino ma sensibile,
che aspira a una certa emancipazione femminile e che disprezza le convenzioni – è veramente unica. Sul primo
ingenuo amore del ragazzo (che vive esperienze dolci–amare) si sovrappone l’amore peccaminoso (ricambiato dalla
giovane donna) del padre di Volodja, «uomo
che ha vissuto», un aristocratico ancora giovane e bello ma egoista e
prepotente, che Volodja quasi
idolatra. Il figlio assiste da spettatore impotente e stupito, ma anche
commosso, a questa paradossale situazione, nella quale si vede trasformato in
rivale del padre (in ciò c’è molto di autobiografico, perché lo scrittore visse
nella realtà una situazione simile). E Zinaida, la cui esperienza è certamente
crudele, accetta docilmente i comandi di Pjotr, come Volodja accetta
docilmente i comandi di Zinaida. Il
ragazzo è sconvolto: i suoi due idoli si amano a tradimento, lasciandolo fuori!
Tutto è finito! Tutti i suoi fiori sono stati strappati e ormai giacciono morti
intorno a lui, sparpagliati e calpestati. La fatale passione tra i due
fa impallidire il tenero piccolo amore tormentato di Volodja e fa maturare l’adolescente
prima del tempo. Ah, il fascino romantico che un uomo ricco e maturo dal
carattere dominante, frutto proibito perché già sposato, ha esercitato sulle
fanciulle di ieri ed esercita su quelle di oggi! Credo che Zinaida apprezzasse,
tuttavia, anche il privilegio di essere amata dall’adolescente Volodja con un
amore romantico così forte e diverso da quello di tutti gli altri pretendenti
più maturi.
Turgenev
ha scritto spesso dell’amore, cucinandolo per i lettori in tutte le salse: l’amore
tenero e puro, il gioco sentimentale con un fondo torbido, il fuoco ardente e
tragico, il desiderio cupo, la passione travolgente. Nel primo periodo della
sua opera, Ivàn Turgenev amò molto il romanzo sentimentale ma in seguito seppe
bilanciare meglio realismo e sentimentalismo. I suoi personaggi maschili sono insieme
veri e ideali, spesso uomini psicologicamente incerti tra sogni e azioni reali,
talora inconcludenti nelle scelte della vita della pratica quotidiana ma sempre
trasfigurati attraverso le memorie infantili del grande scrittore russo. Pur
aspirando a vivere in modo non insignificante, i suoi protagonisti sono come
fatalmente trascinati in basso dalle passioni (meschine) e dai desideri
(piccoli e borghesi). Turgenev ha rappresentato per lo più degli amori infelici,
perché minati dalla debolezza di carattere e dalla mancanza di risolutezza dell’uomo,
che – fragile o ambiguo – aspira a una crescita morale ma si
trova ad avere a che fare con donne, ora forti e prepotenti (immagine freudiana
dell’odiata figura materna), ora pure e deboli ma destinate a soccombere.
Alcuni critici hanno parlato di “amletismo”
del poeta–scrittore russo, e in
ciò consiste forse l’aspetto suo più moderno.
P.S.
Alcuni film sono stati tratti da questo bellissimo racconto:
- il
breve film Pervaya lyubov’, USSR,
Mosfilm 1968, di Vasiliy Ordynskiy, con Aleksandr Kaydanovskiy, Stanislav
Lyubshin, Innokentij Smoktunovskij, Irina Pechernikova ed Elizaveta Solodova;
- il film tedesco Erste Liebe del 1970, sceneggiato e
diretto da Maximilian Schell, con John Moulder-Brown,
Dominique Sanda, Valentina Cortese e lo stesso Maximilian Schell nel bellissimo
ruolo del padre (fu nominato agli Oscar al miglior film straniero);
Grazie per questa bella scheda, Alberto
RispondiEliminaGrazie mille. Si vede che ti ha particolarmente colpito. Un piacere averlo letto.
RispondiEliminaNoemi
Bellissima storia!
RispondiEliminaGreat post thankk you
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