giovedì 6 dicembre 2012

Primo amore di Turgenev - Umiliazione e gelosia di un adolescente

   Ivàn Turgenev e locandine film



“Primo amore” è un piccolo grande racconto di Ivàn Turgenev (Orel, Russia, 1818-1883) che si muove sul filo rosso dell’autobiografia, nel quale Vladimir Petrovic racconta per iscritto agli amici il suo primo amore, che è stato «effettivamente tra i non comuni».

Il sedicenne Volodja, innocente e ingenuo, vive in una dacia in campagna e conosce una vicina di casa ventunenne, l’affascinante principessina Zinaida, nata dal matrimonio dell’umile figlia di un commesso con un principe rovinato dal gioco e da speculazioni sbagliate. Le due donne vivono in una povera casa in affitto, in mezzo a grandi difficoltà economiche. La ragazza, che aspirerebbe a vivere liberamente e che ama essere corteggiata, è circondata da diversi uomini, giovani e meno giovani, tutti innamorati di lei, tra i quali Belovzorov, un ragazzone ruvido e serio che l’ha chiesta in sposa ma inutilmente. Volodja s’innamora perdutamente – come soltanto ci si può innamorare a sedici anni – della giovane donna, che ora lo illude ora lo respinge. Con la sua sensibilità esasperata si accorge ben presto che Zinaida è innamorata di un altro; disperato e geloso, scopre con angoscia che ha una relazione col padre Pjotr, che Volodja ama teneramente ma che anche teme per il carattere severo e mutevole. La madre – ricca e molto più anziana del marito – scopre la relazione, e Volodja ritorna in città insieme ai genitori. Due anni dopo il padre muore appena quarantaduenne per un colpo apoplettico e, quattro anni dopo, Volodja scopre che Zinaida si è sposata e che è morta di parto. Il racconto è così bello che ho cercato di farne una sintesi antologica, nel tentativo di farne assaporare appieno il gusto romantico!

La storia si svolge nell’estate del 1833, in una dacia signorile presa in affitto; Volodja si stava preparando per l’ammissione all’università, studiando pochissimo e senza affrettarsi: «Nessuno limitava la mia libertà. Facevo quel che volevo […] Mio padre mi trattava con indifferenza e dolcezza; la mamma quasi non mi rivolgeva l’attenzione, benché, tranne me, non avesse altri figli: l’assorbivano altre preoccupazioni. Mio padre, un uomo ancora giovane e molto bello, l’aveva sposata per interesse; lei gli passava dieci anni. La mamma conduceva una vita triste: si agitava continuamente, si consumava di gelosia, si arrabbiava – ma mai in presenza di mio padre; ne aveva molta paura e lui si comportava in maniera rigida, fredda e distaccata. Non ho mai visto un uomo più squisitamente tranquillo, sicuro di sé e dispotico.». Il sangue del ragazzo scorreva veloce e il cuore mi doleva in modo dolce e ridicolo: «[…] aspettavo tutto, mi intimidivo di qualcosa e mi meravigliavo di tutto, stavo sul chi vive; la fantasia lavorava e correva rapida intorno alle stesse idee, come all’alba i rondoni intorno al campanile; […] Ricordo, in quel tempo, l’immagine di una donna; il miraggio dell’amore femminile non affiorava quasi mai nella mia mente con contorni definiti; in tutto ciò che pensavo, che sentivo, si nascondeva un presentimento semicosciente, pudico, di qualcosa di nuovo, di indicibilmente dolce, di femminile… Questo presentimento, questa attesa penetrava tutto il mio essere: io la respiravo, risuonava per le mie vene, in ogni goccia di sangue… era destino che presto si realizzasse.».

Tre settimane dopo il padiglione di destra (che era vuoto) veniva preso in affitto dalla principessa Zasekina, molto povera. Così Volodja la vide la prima volta: «Ad alcuni passi da me, nel praticello, tra cespugli verdi di lampone, c’era una fanciulla alta e slanciata con un vestito striato rosa ed un fazzolettino bianco sulla testa; le si affollavano intorno quattro giovani e lei, a turno, dava loro un colpetto sulla fronte con dei fiorellini grigi dei quali non so il nome ma che sono conosciutissimi dai bambini; […] avrei dato tutto il mondo perché quelle piccole ed adorabili dita colpissero anche la mia fronte. Il fucile mi scivolò sull’erba, dimenticai tutto; divoravo con gli occhi il corpo armonioso, il collo, le belle mani, i capelli biondi un poco arruffati sotto il fazzolettino bianco, gli occhi socchiusi e intelligenti, le ciglia e, sotto di esse, le guance delicate… In quello stesso momento anche la fanciulla si girò… Vidi due enormi occhi grigi su  un viso mobile e vivace – e questo viso di colpo cominciò tutto a tremare, a ridere, vi balenarono dei denti bianchi, le sopracciglia si sollevarono in maniera buffa… arrossii, raccolsi da terra il fucile e, inseguito da una risata squillante ma non cattiva, fuggii nella mia camera, mi gettai sul letto e chiusi il viso tra le mani. Il cuore mi batteva forte; provavo una grande vergogna e una gran gioia: sentivo un’agitazione straordinaria.».

La mamma di Volodja, che aveva ricevuto una lettera scritta in una lingua sgrammaticata dalla principessa, mandò il ragazzo per pregarla di favorire da lei verso l’una. Si realizzavano imprevedibilmente e rapidamente i desideri segreti di Volodja, che lo rallegravano e spaventavano. Volodja si presentò alla principessa Zasekina e le illustrò l’impegno della madre, riferendole l’invito a prendere il tè da lei: «In quel momento, si aprì di colpo l’altra porta del salotto e sulla soglia comparve la fanciulla che avevo visto il giorno prima nel giardino. Mi diede la mano e sul suo viso balenò un sorrisetto. […] Approfittai del fatto che non sollevava gli occhi e cominciai ad osservarla, da prima di soppiatto poi sempre più arditamente. Il suo viso mi sembrava ancora più affascinante del giorno prima: tutto in esso era così delicato, intelligente e caro. […] La osservavo: come mi era cara e vicina! Mi sembrava di conoscerla da chissà quanto tempo e, prima di averla conosciuta, di non aver saputo niente, di non aver vissuto… indossava un vestito scuro, ormai liso, con un grembiule. Avrei carezzato volentieri ogni piega di quel vestito e di quel grembiule. Di sotto il vestito comparivano le punte degli stivaletti: con venerazione mi sarei inginocchiato ai suoi piedi… “Ecco, sono seduto davanti a lei – pensavo – l’ho conosciuta… che felicità! dio mio!”. Per poco non cascai giù dalla sedia per l’entusiasmo, ma dondolai solo un poco le gambe, come un bambino che gode. Stavo bene, come un pesce nell’acqua, e per l’eternità non mi sarei mosso da quella stanza, non avrei abbandonato quel posto.».

All’improvviso era entrato Belovzorov, «un giovane biondo e ricciuto, un ussaro con la faccia vermiglia e gli occhi sporgenti», portando un gattino che aveva attirato tutta l’attenzione di Zinaida. Volodja ritornò a casa molto triste, sforzandosi di non piangere perché era geloso dell’ussaro. Volodia restava sempre affascinato dal «baccano indiavolato», dall’«allegria senza cerimonie» e dai «rapporti insoliti con gente sconosciuta» che lo coinvolgevano durante le riunioni serali in casa di Zinaida e che lo facevano ubriacare come per il vino. Una notte al ritorno da una di queste serate indimenticabili, aveva spento la candela ma non riusciva a dormire: «Mi sedetti su una sedia e me ne stetti lì incantato. Ciò che provavo era così nuovo e così dolce… Me ne stavo seduto, immobile, e, girando appena lo sguardo intorno, respiravo lentamente; ora ridevo in silenzio, ricordando, ora mi sentivo gelare al pensiero che ero innamorato, che, ecco, era lui, l’amore. Il viso di Zinaida mi ondeggiava davanti nell’oscurità – senza scomparire mai; le sue labbra sorridevano sempre in quel modo enigmatico, gli occhi mi osservavano un poco di traverso, interrogativi, pensierosi e teneri… come nell’istante in cui mi ero separato da lei. […] Sentivo una grande stanchezza e quiete… ma l’immagine di Zinaida continuava a correre trionfante per la mia anima. […] Oh, dolci sentimenti, dolci suoni, bontà e tranquillità di un’anima commossa, gioia struggente dei primi intenerimenti dell’amore, dove siete? Dove siete?»

Volodja amava il padre di un amore negato: «Mio padre aveva un’influenza straordinaria su di me e straordinari erano i nostri rapporti. Non si occupava quasi della mia educazione e non mi offendeva mai, rispettava la mia libertà e con me era anche gentile, solo che non mi faceva arrivare sino a lui. Lo amavo e lo ammiravo, rappresentava per me l’immagine del vero uomo, e, dio mio, come mi sarei attaccato appassionatamente a lui se non avessi sentito continuamente le sue mani che mi respingevano! […] Più tardi, riflettendo sul suo atteggiamento, giunsi alla conclusione che aveva ben altro che me e la vita familiare; amava altro e di questo altro godeva completamente. «Prendi quello che puoi ma non lasciarti trascinare; essere indipendenti, ecco tutto il gioco della vita», mi disse una volta. […] Mio padre, prima di tutto e più di tutto voleva vivere, e viveva. Forse aveva il presentimento che non gli sarebbe toccato a lungo di godere della sua “parte” di vita: è morto a quarantadue anni.».

Volodja amava ormai irrimediabilmente: «La mia “passione” iniziò da quel giorno. Ricordo che sentivo allora qualcosa di simile a quello che deve provare uno che ottiene un impiego: avevo cessato di essere un ragazzetto, ero innamorato. Ho detto che da quel giorno iniziò la mia passione; potrei aggiungere che da quello stesso giorno iniziarono anche le mie sofferenze. In assenza di Zinaida languivo: non mi entrava in testa niente, mi cadeva tutto di mano, per giorni interi pensavo intensamente a lei… languivo… e in sua presenza le cose non andavano certo meglio. Ero geloso, ero cosciente della mia nullità, da sciocco mettevo il muso e da sciocco mi umiliavo – e tuttavia una forza invincibile mi trascinava da lei – e ogni volta varcavo la soglia della sua camera con un brivido involontario di felicità. Zinaida aveva indovinato subito che mi ero innamorato di lei ed io non pensavo a nasconderlo; si divertiva della mia passione, si burlava di me, mi vezzeggiava e mi tormentava. è dolce essere l’unica fonte, la causa dispotica e modesta delle più grandi gioie e del più profondo dolore per un altro – nelle mani di Zinaida ero come cera molle. Del resto, non ero il solo a esserne innamorato: tutti gli uomini che frequentavano la sua casa avevano perso la testa per lei e lei li teneva in pugno, ai suoi piedi. […] In tutto il suo essere, vivo e bello, c’era un miscuglio particolarmente affascinante di astuzia e noncuranza; […] Sì, Zinaida si burlava molto di me. Per tre settimane la vidi ogni giorno – e cosa, cosa non faceva con me! […] ero tutto preso da un sentimento indefinibile, in cui c’era di tutto: e la tristezza, e la gioia, e il presentimento del futuro, e il desiderio, e la paura della vita. Ma allora non capivo niente di tutto questo e non ero capace di dare un nome a quello che mi si stringeva dentro – o meglio, gli avrei dato un solo nome: Zinaida. Zinaida giocava sempre con me, come una gatta col topo. Ora civettava con me – ed io mi agitavo e mi sdilinquivo – ora di colpo mi respingeva – ed io non osavo avvicinarla né guardarla.».

Un giorno Volodja in giardino incontrò Zinaida seduta sull’erba, immobile; avrebbe voluto allontanarsi ma lei aveva alzato il viso pallido mostrando una tristezza così grave e una stanchezza così profonda che il cuore gli si strinse e in quel momento gli sembrò che avrebbe dato volentieri la sua vita per lei, purché non si disperasse. Zinaida si fece leggere da Volodja i versi di una famosa poesia d’amore di Puškin che recitavano: «Non amare non si può», e gli disse che un giorno avrebbe saputo. A Volodja balenò il pensiero che fosse innamorata: «Dio mio! è innamorata!». I suoi veri tormenti iniziarono allora: «Avevo perso la testa; pensavo, ripensavo e con insistenza osservavo Zinaida, anche se di nascosto, per quanto possibile. In lei c’era stato un cambiamento – era evidente. Andava a passeggiare a lungo da sola. Talvolta non si mostrava agli ospiti; se ne stava per ore intere in camera sua. Prima non le accadeva mai. Io ero diventato tutto d’un tratto straordinariamente perspicace o almeno così mi sembrava. […] Dopo poco andai a casa. “è innamorata”, mormorarono involontariamente le mie labbra. “Ma di chi?”».

Passavano i giorni e Zinaida diventava sempre più strana. Una volta Volodja le aveva visto il viso bagnato di lacrime: «Le lacrime di Zinaida mi avevano fatto perdere la testa; decisamente non sapevo cosa pensare ed ero pronto a piangere: ero proprio un bambino, nonostante i miei sedici anni. […] Non pensavo a niente e a nessuno. Avevo perso la testa e cercavo sempre luoghi solitari. Mi piacevano in modo particolare le rovine della serra. Arrampicatomi sull’alto muro, seduto come un giovane infelice, solo e triste, mi accadeva di sentire pietà per me stesso; mi piacevano tanto questi sentimenti tristi, me ne ubriacavo!». Un giorno Zinaida lo aveva sfidato a saltare dall’alto di quel muro, se veramente l’amava, e Volodja si era buttato giù senza pensarci un istante. Cadendo aveva perso i sensi e, quando era rinvenuto, con tenerezza allarmata, Zinaida gli stava dicendo che l’amava: «Il suo petto ansimava vicino al mio, le sue mani mi toccavano la testa e, all’improvviso – cosa mi succedeva! – le sue labbra tenere e fresche cominciarono a coprire il mio viso di baci… sfiorarono le mie labbra…, ma a questo punto Zinaida certo indovinò dall’espressione del mio viso che, anche se non aprivo gli occhi, ero tornato in me […] Mi alzai. […] Non finì la frase ed andò via spedita, mentre io mi sedetti un momento sulla strada… le gambe non mi reggevano. Le ortiche mi avevano punto le braccia, mi doleva la schiena e mi girava la testa; ma il senso di beatitudine che provai allora non si è ripetuto mai più nella mia vita. Era iniziato con un dolce dolore per tutte le membra ed era terminato, infine, con salti ed esclamazioni di entusiasmo. Proprio così: ero ancora un bambino. Per tutto il giorno fui così allegro e fiero, conservavo così viva sul mio viso l’impressione dei baci di Zinaida, con un brivido di estasi ricordavo ogni sua parola e così accarezzavo la mia inattesa felicità da aver persino paura; non avevo neppure il desiderio di vedere lei, la colpevole di queste nuove sensazioni. Mi pareva di non poter esigere più niente dal destino, che ora si sarebbe dovuto prendere, tirare un ultimo sospiro, e poi morire.».

La mattina seguente Voldja si era alzato presto e aveva vagato a lungo per le montagne e per i boschi: «non mi sentivo felice; ero uscito di casa con l’intenzione di darmi alla malinconia ma la gioventù, il tempo meraviglioso, l’aria fresca, il piacere della veloce camminata, la delizia di stendersi da solo sull’erba fitta mi presero tutto: il ricordo di quelle indimenticate parole, di quei baci, mi stringeva l’anima». Un giorno, il ragazzo sentì risuonare per una stradina il rumore sordo di zoccoli di cavalli e vide suo padre e Zinaida che procedevano vicini: «Mio padre le stava dicendo qualcosa, girato verso di lei con tutto il corpo e con una mano poggiata sul collo del cavallo; sorrideva. Zinaida lo ascoltava in silenzio, con gli occhi gravemente abbassati e le labbra serrate. Da prima vidi solo loro; appena dopo qualche attimo, dalla curva della valle, comparve Belovzorov in uniforme da ussaro […] Mio padre tirò le briglie e si allontanò da Zinaida, lei sollevò lentamente lo sguardo verso di lui ed entrambi si lanciarono al galoppo… Belovzorov volò dietro di loro, facendo risuonare la sciabola. “Lui è rosso come un gambero” – pensai – “ma lei… perché è così pallida? Ha cavalcato tutta la mattina ed è pallida?”».

Per sei giorni successivi Zinaida si disse malata e fece di tutto per sfuggire il ragazzo: «Involontariamente mi voltava le spalle… involontariamente; ecco cosa mi era amaro, cosa mi rattristava! Ma non c’era niente da fare, cercavo di non finirle a tiro e la spiavo da lontano, cosa che non sempre mi riusciva. Come prima, le era successo qualcosa di incomprensibile; il suo viso era diverso, era tutta diversa.». Tre giorni dopo la incontrò nel giardino e lei lo trattò con dolcezza e gli disse che era un po’ stanca e che doveva amarla ma non come prima, soltanto come un amico; gli diede poi «un bacio pulito e tranquillo», chiamandolo mio paggio: «Tutto confuso mi incamminai dietro di lei. “Questa fanciulla mite ed assennata”, – pensavo, – “è davvero la stessa Zinaida che conoscevo?”. La sua andatura mi sembrava più tranquilla, tutta la sua figura più maestosa ed armoniosa… Dio mio! Con quale nuova forza divampava in me l’amore!».

Un giorno, dopo pranzo, alla presenza di tutti i suoi giovani corteggiatori e di Volodja, Zinaida per pegno raccontò una sorta di fiaba che nascondeva la storia di un amore impossibile – quello che lei stava vivendo dolorosamente – e che accennava a una regina, che era circondata da ospiti nobili ed eleganti, ma pensava sempre e soltanto a un uomo che l’aspettava nel buio, vicino a una fontana, colui che amava e che la dominava: «Non ha un vestito ricco né pietre preziose, nessuno lo conosce ma mi aspetta ed è sicuro che io andrò, – ed io andrò e non c’è alcun potere che potrà fermarmi quando deciderò di andare da lui, di rimanere e di perdermi con lui, là, nell’oscurità del giardino, tra il fruscio degli alberi ed il mormorio della fontana…». Volodja intuiva l’allusione celata e si chiedeva chi fosse quell’uomo segreto di Zinaida: «“Un’avventuriera”, aveva detto tra sé una volta mia madre. Un’avventuriera lei, il mio idolo, la mia dea! Questa parola mi scottava, cercavo di sfuggirla sotto il cuscino, mi indignavo e, nello stesso momento in cui disapprovavo, cosa non avrei dato per essere quel fortunato vicino alla fontana!…».

E una volta era andato di notte nel giardino, accanto alla fontana, e aveva sentito un fruscio: «Cos’era? Li avevo sentiti davvero i passi o era il mio cuore che batteva? – Chi è? – balbettai in maniera appena percepibile. E cos’era di nuovo? Risate soffocate?… o il fruscio delle foglie… o un respiro proprio nell’orecchio? Cominciavo ad aver paura… – Chi c’è? – ripetei a voce ancora più bassa. […] Io aspettai, aspettai e infine me ne tornai nella mia camera, al mio letto diventato freddo. Sentivo un’agitazione straordinaria: proprio come se fossi andato a un incontro e fossi rimasto solo, passando accanto alla felicità altrui.».

Sempre più geloso dell’uomo sconosciuto, Volodja prese un coltellino e di notte ritornò nuovamente in giardino per tentare di cogliere l’amante di Zinaida: «Dei passi rapidi, leggeri e guardinghi risuonavano chiaramente nel giardino. “Eccolo… Eccolo, finalmente!” mi balenò nel cuore; cavai fuori convulsamente il coltello dalla tasca, convulsamente lo aprii – quali scintille rosse mi mulinavano negli occhi, dal terrore e dalla collera mi si rizzarono i capelli… I passi si dirigevano verso di me; mi curvai verso di essi… Comparve un uomo… dio mio! Era mio padre! Lo riconobbi subito, sebbene fosse tutto imbacuccato in un mantello scuro e avesse il cappello calato sul viso. Mi passò accanto in punta di piedi. Non mi notò anche se non ero nascosto da niente, ma ero così rattrappito e raggrinzito che mi si confondeva probabilmente con la terra stessa. Da Otello, geloso e pronto ad uccidere, mi ero trasformato in uno scolaretto… […] Dal terrore, avevo lasciato cadere il coltello per terra ma neanche mi misi a cercarlo: ero pieno di vergogna. Di colpo rinsavii.».

La mattina dopo Volodja si era alzato con il mal di testa e la sera stessa pianse tra le braccia di Zinaida con un tale impeto da spaventarla, dicendole che sapeva tutto, che si era presa gioco di lui, e che a nulla serviva il suo amore: « – Sono colpevole davanti a voi, Volodja – uscì a dire Zinaida. – Ah, quanto sono colpevole… – aggiunse e strinse le mani. – Quanto c’è di brutto, di oscuro, di cattivo in me… Ma io non mi faccio gioco di voi, io vi amo. Voi neanche sospettate perché e come… o forse lo sapete? Cosa potevo dirle? Stava davanti a me e mi guardava, ed io le appartenevo completamente, dalla testa ai piedi, non appena mi guardava… […] Faceva con me tutto quel che voleva.».

Iniziò per il ragazzo un periodo strano e febbrile, «una specie di caos nel quale si mescolavano vorticosamente i sentimenti, i pensieri, le congetture, i desideri, le gioie e le passioni più contrastanti»; aveva paura di guardare in se stesso e di dare una risposta a tutto; aveva solo fretta di vivere ma la notte dormiva perché lo aiutava la spensieratezza infantile: «Non volevo sapere se ero amato e non volevo confessarmi di non essere amato». Un forte colpo improvviso pose fine a tutto e lo gettò su una nuova strada. Volodja apprese da un domestico che una terribile scenata era accaduta tra i suoi genitori a causa della relazione del padre con la giovane principessa, rivelata alla madre da una lettera anonima: «Non scoppiai a piangere né mi diedi alla disperazione; non mi chiesi come e quando fosse accaduto tutto questo né mi meravigliai di non aver indovinato tutto prima, da tempo; non me la presi neanche con mio padre… Ciò che avevo saputo era al di sopra delle mie forze: questa scoperta improvvisa mi aveva schiacciato… Era finito tutto. Tutti i miei fiori erano stati strappati di colpo e giacevano intorno a me sparsi e calpestati.».

Il giorno dopo la mamma annunciò che si sarebbero trasferiti in città, ad Arbat, ove avevano una casa e il padre andò da lei in camera da letto e rimasero a lungo da soli: «Tutto venne fatto con tranquillità, senza fretta, la mamma ordinò pure di riverire la principessa e di farle presente il suo dispiacere, ma le condizioni di salute non le consentivano di andarla a trovare prima della partenza. Io vagavo come uno sbandato e speravo solo che tutto finisse al più presto. Solo una cosa non riuscivo a capire: come aveva potuto lei, una fanciulla giovane, una principessina, risolversi a un simile atto, sapendo che mio padre non era un uomo libero e avendo la possibilità di sposare, per esempio, Belovzorov? In cosa sperava? Come non aveva avuto paura di rovinare tutto il proprio futuro?». Volodja rifletté che quello era l’amore, quella era la passione, quella la dedizione… Volle salutare Zinaida per l’ultima volta e lei comparve in un abito scuro, pallida e con i capelli sciolti; lo pregò di non pensare che fosse malvagia, anche se certe volte lo aveva fatto soffrire. Volodja cominciò a tremare come in passato «sotto l’influenza di un fascino irresistibile, inesprimibile» e le disse: «Credetemi, Zinaida Aleksandrovna, qualunque cosa abbiate fatto, in qualunque modo mi abbiate fatto soffrire, io vi amerò e vi adorerò fino alla fine dei miei giorni. Si voltò rapidamente verso di me e, spalancate le braccia, mi abbracciò e mi baciò forte e con calore. Dio sa questo lungo bacio d’addio a chi fosse destinato ma io ne gustati con avidità la dolcezza. Sapevo che non si sarebbe ripetuto mai più. – Addio, addio, – insistevo. Lei si allontanò e andò via. Anch’io me ne andai. Non sono in grado di riferire la sensazione che mi aveva preso. Non desidererei che si ripetesse un’altra volta ma mi considererei infelice se non l’avessi mai provata. Ci trasferimmo in città. Non mi sbarazzai subito del passato né subito mi misi a studiare. La mia ferita si rimarginava lentamente; contro mio padre non nutrivo alcun sentimento cattivo. Anzi: ai miei occhi era come cresciuto… ma lasciamo agli psicologi di spiegare, come sanno, questa contraddizione.».

Un giorno, durante una loro passeggiata a cavallo, Volodja e il padre si erano persi di vista, e davanti alla finestrella di una casetta di legno il ragazzo vide il padre voltato di schiena che parlava con una donna vestita di scuro: era Zinaida: «Mi misi a osservare e cercavo di sentire. Sembrava che mio padre volesse far valere la sua opinione su qualcosa e che Zinaida non fosse d’accordo. Come fosse ora, vedo il suo viso: triste, serio, bello e con un tratto indescrivibile di devozione, di malinconia, di amore e di una certa disperazione – non posso scegliere un’altra parola. Parlava a monosillabi, teneva gli occhi bassi e sorrideva appena, rassegnata e ostinata. Solo da questo sorriso riconobbi la mia Zinaida di una volta. Mio padre alzò le spalle e si aggiustò il cappello, cosa che in lui era sempre segno di impazienza…». Irritato, il padre aveva improvvisamente alzato il frustino, e aveva dato un colpo secco sul braccio nudo di Zinaida: «Zinaida sussultò, guardò in silenzio mio padre, e levando lentamente il braccio alle labbra, baciò la ferita che vi si era aperta. Mio padre gettò via il frustino e, volando veloce sui gradini, irruppe nella casa… Zinaida si girò, tese il braccio, mandò indietro la testa e si allontanò anch’essa dalla finestra. Con quale spavento, con quale terribile sconcerto nel cuore mi gettai indietro […] Guardavo con aria stupida il fiume e non mi rendevo conto che mi scendevano le lacrime. “La battono, – pensavo, – la battono… la battono”». Volodja raggiunse il padre che stava con la testa china «e allora, per la prima e forse anche l’ultima volta, mi resi conto di quanta tenerezza e quanto dispiacere potessero esprimere i suoi tratti severi».  Il ragazzo si mise a correre tentando di raggiungerlo ma non ci riuscì: «Ecco, questo è amore, – mi dissi nuovamente, seduto di notte davanti alla mia scrivania, sulla quale già cominciavano a comparire libri e quaderni, – questa è passione!… Come non indignarsi, come tollerare un colpo da chiunque sia!… dalla mano più cara! Ma certo è possibile se si ama… Ma proprio io… immaginavo… L’ultimo mese mi aveva invecchiato molto e il mio amore, con tutte le sue agitazioni e passioni, finì per sembrare piccolo, infantile e misero davanti a quell’altro, sconosciuto, che potevo appena indovinare e che mi aveva spaventato, come un volto estraneo, bello ma minaccioso, che ci si sforzi invano di distinguere nella penombra. […]  
Due mesi dopo entrai all’università e dopo sei mesi mio padre morì (per un colpo) a Pietroburgo, dove si era appena trasferito con me e mia madre. […] La stessa mattina del giorno in cui ebbe il colpo, aveva iniziato una lettera in francese per me. “Figlio mio, – mi scriveva, – abbi timore dell’amore delle donne, di questa felicità, di questo veleno…”.».

Dopo quattro anni, Volodja venne a sapere che la principessina Zasekina aveva sposato un uomo benestante e che aspettava un bambino; dopo qualche settimana, quando era andato a trovarla nel suo albergo, era venuto però a sapere che era morta di parto: «Fu come se qualcosa mi colpisse nel cuore. Il pensiero che avrei potuto vederla, che non l’avevo vista e che non l’avrei vista mai più, questo amaro pensiero si fece strada in me con tutta la forza di un inoppugnabile biasimo. “è morta”, ripetevo, guardando inebetito il portiere; uscii quieto nella strada e camminai senza sapere dove andavo. Tutto il passato d’un tratto venne a galla e mi si presentò davanti. Ed ecco come si era risolta, a cosa aveva teso, correndo e agitandosi, tutta quella vita giovane, ardente e brillante! (…) O gioventù! gioventù! Non ti curi di nulla, come se possedessi tutti i tesori del mondo, anche la malinconia ti rallegra, anche la tristezza ti sta bene; sicura e insolente dici: guardate! Io sola vivo; ma i giorni per te arrivano e scompaiono senza traccia e senza calcolo e tutto in te si scioglie come la cera al sole, come la neve… E forse, il segreto del tuo splendore sta non nella possibilità di fare tutto ma nella possibilità di pensare che farai tutto, nel fatto che getti al vento le forze che non saresti capace di usare altrimenti, nel fatto che ognuno di noi si considera seriamente uno scialacquatore e seriamente ritiene suo diritto dire: “Oh, che cosa avrei fatto se non avessi perduto il mio tempo invano?”. Ed anche io… cosa speravo, cosa mi aspettavo, quale ricchezza futura prevedevo quando seguivo con un sospiro, con una sensazione triste, il miraggio – sorto per un attimo – del mio primo amore? E cosa si è realizzato di tutto ciò che avevo desiderato? Anche ora, quando ormai cominciano a scendere sulla mia vita le ombre della sera, cosa mi è rimasto di più fresco e più caro se non il ricordo di quel breve temporale mattutino di primavera? […]».
[Da “Primo amore”,1860, traduzione di Rosa Mauro, Sellerio editore, Palermo 1983]

Ed ecco un racconto del primo amore e “un assaggio” di pagine di superba bellezza, scritte da un grande autore classico! La conclusione del romanzo è profondamente leopardiana: tutti noi viviamo rimpiangendo i dolci inganni e gli ingenui sentimenti dei giovanili anni perduti. Tutti noi viviamo l’acuta nostalgia di ciò che è irrimediabilmente perduto, ma soprattutto del nostro primo «ragionar d’amore», dei primi timidi sguardi, delle prime estatiche emozioni. L’adolescente Volodja, dal cuore ardente e dalla mente sognante, è rappresentato con forte verità di sentimenti e con approfondimento psicologico notevole. Quanti di noi possono non riconoscersi in lui, nei suoi teneri sentimenti amorosi, prima esaltati e poi delusi? La descrizione di Zinaida – donna luminosa e oscura, bella e civettuola, ricca di giovanile incanto femminile, molto consapevole della forza del suo fascino ma sensibile, che aspira a una certa emancipazione femminile e che disprezza le convenzioni – è veramente unica. Sul primo ingenuo amore del ragazzo (che vive esperienze dolci–amare) si sovrappone l’amore peccaminoso (ricambiato dalla giovane donna) del padre di Volodja, «uomo che ha vissuto», un aristocratico ancora giovane e bello ma egoista e prepotente, che Volodja quasi idolatra. Il figlio assiste da spettatore impotente e stupito, ma anche commosso, a questa paradossale situazione, nella quale si vede trasformato in rivale del padre (in ciò c’è molto di autobiografico, perché lo scrittore visse nella realtà una situazione simile). E Zinaida, la cui esperienza è certamente crudele, accetta docilmente i comandi di Pjotr, come Volodja accetta docilmente i comandi di Zinaida. Il ragazzo è sconvolto: i suoi due idoli si amano a tradimento, lasciandolo fuori! Tutto è finito! Tutti i suoi fiori sono stati strappati e ormai giacciono morti intorno a lui, sparpagliati e calpestati. La fatale passione tra i due fa impallidire il tenero piccolo amore tormentato di Volodja e fa maturare l’adolescente prima del tempo. Ah, il fascino romantico che un uomo ricco e maturo dal carattere dominante, frutto proibito perché già sposato, ha esercitato sulle fanciulle di ieri ed esercita su quelle di oggi! Credo che Zinaida apprezzasse, tuttavia, anche il privilegio di essere amata dall’adolescente Volodja con un amore romantico così forte e diverso da quello di tutti gli altri pretendenti più maturi.

Turgenev ha scritto spesso dell’amore, cucinandolo per i lettori in tutte le salse: l’amore tenero e puro, il gioco sentimentale con un fondo torbido, il fuoco ardente e tragico, il desiderio cupo, la passione travolgente. Nel primo periodo della sua opera, Ivàn Turgenev amò molto il romanzo sentimentale ma in seguito seppe bilanciare meglio realismo e sentimentalismo. I suoi personaggi maschili sono insieme veri e ideali, spesso uomini psicologicamente incerti tra sogni e azioni reali, talora inconcludenti nelle scelte della vita della pratica quotidiana ma sempre trasfigurati attraverso le memorie infantili del grande scrittore russo. Pur aspirando a vivere in modo non insignificante, i suoi protagonisti sono come fatalmente trascinati in basso dalle passioni (meschine) e dai desideri (piccoli e borghesi). Turgenev ha rappresentato per lo più degli amori infelici, perché minati dalla debolezza di carattere e dalla mancanza di risolutezza dell’uomo, che – fragile o ambiguo – aspira a una crescita morale ma si trova ad avere a che fare con donne, ora forti e prepotenti (immagine freudiana dell’odiata figura materna), ora pure e deboli ma destinate a soccombere. Alcuni critici hanno parlato di “amletismo” del poeta–scrittore russo, e in ciò consiste forse l’aspetto suo più moderno.

P.S. Alcuni film sono stati tratti da questo bellissimo racconto:

- il breve film Pervaya lyubov’, USSR, Mosfilm 1968, di Vasiliy Ordynskiy, con Aleksandr Kaydanovskiy, Stanislav Lyubshin, Innokentij Smoktunovskij, Irina Pechernikova ed Elizaveta Solodova;

- il film tedesco Erste Liebe del 1970, sceneggiato e diretto da Maximilian Schell, con John Moulder-Brown, Dominique Sanda, Valentina Cortese e lo stesso Maximilian Schell nel bellissimo ruolo del padre (fu nominato agli Oscar al miglior film straniero);

- il film Lover’s Prayer,  che combina il racconto di Turgenev con una novella di Čechov, del 1999, diretto da Reverge Anselmo, con Kirsten Dunst, Julie Walters, Geraldine James, Nathaniel Parker e Nick Stahl.



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