Locandine di Steppenwolf e Francesco
Continuando a scrivere
di Hermann Hesse, nel racconto Sul
ghiaccio (1901) – tratto da un tascabile Newton intitolato “Amore” che
contiene diversi piccoli racconti giovanili e poesie dedicate all’amore,
scritti da Hermann Hesse nel periodo compreso tra il 1901 e il 1918 – il grande
autore tedesco narra dell’amore durante il periodo adolescenziale, con tutte le
sue trepidazioni e attese.
Hesse vi descrive il bacio dato da un compagno di classe
quattordicenne alla ragazza più graziosa della scuola mentre pattinavano:
«Baciato! questo era certamente qualcosa di diverso dalle insipide
conversazioni e dalle timide strette di mano, che di solito venivano celebrate
come la più alta delizia del condurre le ragazze. Baciato! Era il suono di un
mondo estraneo, chiuso, timidamente presagito, che aveva il profumo invitante
dei frutti proibiti, che aveva qualcosa di celestiale, di poetico, di
indicibile, che apparteneva a quel territorio oscuramente dolce, seducente e
terribile, da noi non nominato, ma per presagi conosciuto ed era parzialmente
illuminato dalle leggendarie avventure amorose di qualche dongiovanni cacciato
dalla scuola. […] Ma dovevano passare anni prima che il mio sogno si
realizzasse e la mia bocca si posasse su una bocca rossa di fanciulla.».
Nel racconto Ricordi
(1906) (in “Amore”), Hermann
Hesse ricorda i baci finalmente dati, scrivendo: «Cose passate! Ma la cosa
migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri
segreti. La cosa migliore era la forza che quell’amore mi dava, la forza lieta
di vivere e di lottare per lei, di camminare sull’acqua e sul fuoco. Potersi
buttare, per un istante, poter sacrificare degli anni per il sorriso di una donna:
questa sì che è felicità, e io non l’ho perduta.». Com’è saggio tutto questo!
Negli adolescenti, l’amore – anche quando non è ricambiato – per se stesso
riempie di felicità e crea quello stato di perenne esaltazione che rende
possibile qualsiasi cosa, anche la più straordinaria. Ricordo, inoltre, alcuni
versi della poesia Amo le donne (1902):
«Amo le donne, che mille anni fa / da poeti erano amate e celebrate. / […] /
Amo le donne – snelle e meravigliose, / che ancora non nate riposano nel grembo
degli anni. / Assomiglieranno allora con le loro bellezze / pallide come le
stelle alle bellezze dei miei sogni.».
Per Hermann: «La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi
sa amare […] Felice è dunque chi è capace di amare molto. Ma amare e desiderare
non sono la stessa cosa: l’amore è desiderio fattosi saggio. L’amore non vuole
avere, vuole soltanto dare.». Di lui ricordo anche il seguente noto aforisma
quanto mai veritiero: «L’amore si può mendicare, comprare, regalare, si può
trovare per strada, ma non si può estorcere».
James Joyce, grande autore nordico, nell’autobiografico Dedalus (scritto nel 1904 quando aveva
ventidue anni, ma rielaborato per più di dieci anni per essere pubblicato nel
1916 a New York col titolo Ritratto
dell’artista da giovane, che divenne una delle opere fondamentali della
letteratura del nostro secolo, la cui ricchezza sta appunto nell’originale
mescolanza tra persona reale e personaggio ideale e la cui grandezza sta nella
capacità di entrambi di «uscire da quel labirinto i cui meandri si chiamano
infanzia, famiglia, collegio, città, religione e patria» e di scegliere per sé
«quelle armi odisseiche che furono l’insegna di Joyce durante tutta la sua
vita: silenzio – esilio – astuzia»), esprime con parole altrettanto calde il
sentimento ineffabile di estasi che nasce nell’anima desolata e solitaria di un
avvilito e confuso adolescente. Stephen Dedalus, vede una ragazza che «gli
stava davanti in mezzo alla corrente: sola e immobile, guardando verso il mare.
Pareva una creatura trasformata per incanto nell’aspetto di un bizzarro e
bell’uccello marino.». Parlando di una specie di miracolo, scrive Joyce: «Gran
Dio! – gridò l’anima di Stephen in uno scoppio di gioia profonda. Bruscamente
le volse le spalle, incamminandosi attraverso la spiaggia. Aveva le guance
infuocate, il corpo bruciante, le membra in un tremito. Si allontanò sempre
avanti, avanti, a gran passi, sulle sabbie, cantando selvaggio verso il mare,
salutando ad alta voce l’avvento della vita che lo aveva chiamato ad alte grida.
L’immagine della ragazza gli era entrata nell’anima per sempre e nessuna parola
avrebbe rotto il sacro silenzio della sua estasi. Quegli occhi lo avevano
chiamato e la sua anima era balzata al richiamo. Vivere, errare, cadere,
trionfare, ricreare la vita dalla vita! Un angelo selvaggio gli era apparso,
l’angelo della giovinezza e della bellezza mortale, un messaggero dalle giuste
corti della vita, per spalancargli innanzi in un attimo d’estasi le porte di
tutte le strade dell’errore e della gloria. Avanti! Avanti! Avanti! S’arrestò
d’improvviso e udì il suo cuore nel silenzio. Fin dov’era arrivato? Che ora
era?». Accanto al cuore selvaggio della vita con la sua anima rinata dalla
tomba dell’adolescenza, finalmente felice, Stephen grida: «Avanti! Avanti! Avanti!»
[James
Joyce Dedalus - Ritratto dell’artista da giovane, traduzione di Cesare Pavese,
Aldelphi, 1970]. A Joyce, che ha saputo essere così lirico, dobbiamo
tuttavia un paragone molto prosaico del rapporto tra i sessi: «L’uomo e la
donna, e l’amore, cos’è mai tutto questo? Un tappo e una bottiglia.». Potrebbe
anche essere vero, ma il contenuto della bottiglia è spesso un materiale
esplosivo!
In Lettera di un
giovane del 1906 (in “Amore”), Hermann Hesse enuncia il concetto dell’«amare per
amare». Scrive il grande autore tedesco:
«Mentre il dolore di un primo
amore infelice mi tormentava e mentre un incompreso bisogno, una quotidiana
malinconia, speranze e delusioni si agitavano in me, nonostante la depressione
e le pene d’amore, ero in ogni momento felice nel profondo del cuore. Tutto ciò
che mi circondava mi era caro e aveva qualcosa da dirmi, non c’era nulla di
morto, nessun vuoto nel mondo. […] Da quel giorno fino a oggi non mi sono mai
più realmente innamorato. Fra tutte le cose che conoscevo, nessuna mi appariva
così nobile, ardente e lacerante come è l’amore verso le donne. Non sempre
intessevo relazioni con donne o ragazze, né ne amavo sempre in tutta coscienza
una in particolare, ma i miei pensieri erano sempre occupati in qualche modo
dall’amore, e la mia adorazione del bello era in realtà una costante devozione
verso le donne.». Com’è vero tutto questo! Negli anni giovanili, il sentimento
dell’amore vive a prescindere dalla corrispondenza amorosa o dalla presenza di
un essere amato.
Un amore di questo tipo, che s’innesca come nato da se
stesso ma che si evolve in modo fatale, risalta in un altro racconto di Hesse, Sacrificio
d’amore (1906) (sempre in “Amore”),
ove un anziano aiuto–libraio narra all’autore un amore devastante che lo ha
distrutto moralmente ed economicamente: «E
se le dico che la mia vita è stata fiamma e vento di tempesta, rida pure, per
carità! […] Ma volevamo parlare
dell’amore, no? Dunque, che cos’è amore? A morire per una donna amata oggi si
arriva di rado. Certo sarebbe la cosa più bella. – Non m’interrompa, lei! Non parlo dell’amore
a due, del baciarsi, dormire insieme, sposarsi. Parlo dell’amore divenuto
l’unico sentimento di una vita. Esso resta solitario, anche se, come si dice
viene “ricambiato”. Consiste in questo, che ogni volontà e capacità di una
persona tendono con passione a un unico scopo, e che ogni sacrificio diventa un
godimento. Questa specie di amore non vuole essere felice, vuole bruciare e
soffrire e distruggere, è fiamma
e non può morire prima di aver divorato sin l’ultima cosa che possa raggiungere.
Sulla donna che amavo non occorre lei sappia nulla. Forse era meravigliosamente
bella, forse soltanto graziosa. Forse era un genio, forse no. Che importa,
santo Dio! Essa era l’abisso in
cui dovevo sprofondare, era la mano di Dio che un giorno penetrò nella mia vita
futile. E da quel momento questa futile vita fu grande e principesca, capisce,
d’improvviso non fu più la vita di un uomo di rango, bensì quella di un Dio e
di un fanciullo, delirante e sconsiderata, bruciava e risplendeva. […] Per lei
io fui tutto ciò che potesse allietarla, per lei fui allegro e serio, loquace e
silenzioso, savio e pazzo, ricco e povero.». [Da “Amore”, a cura di Mirella Ulivieri,
Newton Compton Editori, Roma 1993]
Ed è proprio così, quando si è ragazzi e si ama l’amore per
l’amore! Questa calda sensazione si disperde purtroppo col passare degli anni:
quando s’invecchia, i sentimenti si appannano e la furia delle passioni si
smorza; ci si sente allora come rami rinsecchiti e si ha paura d’amare o di
ammettere di essere innamorati.
Hermann Hesse è stato uno degli scrittori più prolifici (tra
i più amati e letti nel mondo). Era nato in Germania a Calw (Württemberg) il 2
luglio del 1877 da Johannes, un pastore protestante estone dalla vita ascetica,
e da Maria Gundert, una missionaria piena di fantasie e interessi letterari,
conosciutisi in India. La madre era al suo secondo matrimonio: dalle prime
nozze (sempre con un missionario) aveva avuto i due figli Theodor e Karl (i
fratellastri di Hermann) mentre dalle seconde nozze erano nati sei figli (due
dei quali morti subito dopo il parto). Maria era figlia di un coltissimo e
importante linguista e studioso tedesco di sanscrito, anch’egli missionario
calvinista. La ricca biblioteca del nonno fu utile per la formazione della
grandissima cultura del giovane Hermann, che ben presto cominciò a mostrare
intolleranza per la severità dell’educazione familiare impartitagli e per
qualsiasi autorità precostituita: in modo particolare odiava la rigida e conformista
scuola teutonica del tempo. I genitori erano religiosissimi cristiani di
matrice pietista (molto impegnati nella dura difesa dei loro valori spirituali)
e avrebbero voluto fare di Hermann un pastore protestante; lo obbligarono,
pertanto, a frequentare il seminario di Maulbronn. Dopo un tentativo di fuga
ritenuto una banale scappatella, il sensibile e ostinato Hermann fu riportato
in seminario e lì cominciarono a manifestarsi i primi segni di una depressione
nervosa che durò per tutta la vita e che lo portò a un tentativo di suicidio e
al ricovero in una clinica per malati mentali. Dopo la minaccia di un secondo
suicidio, i genitori si convinsero finalmente a fargli frequentare un ginnasio
pubblico. Hermann non concluse però gli studi e tentò i diversi lavori di
meccanico orologiaio, apprendista libraio, libraio e antiquario. Si trasferì
quindi a Basilea (in Svizzera), conquistando una completa autonomia. Iniziava,
intanto, a scrivere poesie e racconti.
Nel 1904 il suo primo romanzo autobiografico Peter Camenzind ebbe un discreto
successo letterario: vi sosteneva con malinconia il tema romantico
dell’autorealizzazione, possibile soltanto nell’isolamento e nell’emarginazione
dalla comunità. Nel 1906 seguì il libro Sotto
la ruota (Unterm Rad), d’ispirazione romantica, nel quale Hesse
rappresentava in modo quasi tragico la crisi di uno studente stroncato dalla
rigida disciplina della scuola prussiana. A 27 anni sposò Maria Bernoulli (più
grande di lui), dalla quale tra il 1905 e il 1911 ebbe tre figli; la famiglia
andò a vivere in campagna nella regione del Baden, a contatto di quella natura
che Hermann tanto amava. Frattanto collaborava con riviste e giornali. Ben
presto il matrimonio entrò in crisi per le difficoltà dello scrittore di
conciliare i gravosi impegni familiari di una vita borghese con la sua attività
artistico–letteraria. Nel 1910 scrisse una storia d’amore dal titolo Gertrud e nel 1914 pubblicò il romanzo Rosshalde, che narrava l’infelice
storia di un adolescente conteso tra i genitori.
Durante il primo conflitto mondiale, Hermann (che non
condivideva i sentimenti nazionalistici dei suoi compatrioti) si sentì travolto
da un inappropriato senso di colpevolezza; e l’orribile catastrofe della guerra
mise a dura prova il suo già precario equilibrio psichico, turbato ancor più da
una malattia psichiatrica della moglie e dagli esiti di una grave meningite che
aveva colpito il figlio minore. Questo infausto periodo produsse in lui un
capovolgimento esistenziale straordinario. Per motivi politici si spostò nel
Canton Ticino, ove rimase per tutto il periodo della guerra scrivendo alcuni
libri sotto pseudonimo, sempre tormentato da continue crisi depressive, per le
quali fece ricorso anche alla neonata psicanalisi. Nel 1919 pubblicò
l’importante romanzo Demian, la storia
della giovinezza di Emil Sinclair (Demian, die Geschichte von Emil Sinclair
Jugend), che narrava lo sconvolgimento prodotto dalla guerra sulla vita di
alcuni giovani universitari (costituì uno dei primi libri europei scritti sotto
l’evidente influenza della psicanalisi). In quegli anni scrisse anche numerosi
libri di versi, raffinati e pieni di tormento.
Nel 1921 prese la cittadinanza svizzera e iniziò a preparare
il poema indiano Siddharta, uno dei
suoi capolavori, pieno di grande spiritualità e frutto di un intenso studio
delle religioni orientali e del Buddismo, iniziato dopo un viaggio in India
compiuto nel 1911. Con questo testo riuscì a conciliare con successo il
misticismo d’Oriente con la morale e la cultura d’Occidente (per la sua
profonda sete d’assoluto e per l’esasperata ricerca dell’Io il libro è stato
molto amato dai giovani di tutte le latitudini, e lo è tuttora).
Nel 1924 Hesse sposò Ruth Wenger, una cantante più giovane
di lui, ma già dopo pochi mesi il matrimonio entrava in crisi. Nel 1927
divorziò e sposò Ninon Auslander, un’archeologa austriaca di origine ebraica
che diventò la compagna affettuosa di tutta la sua vita. Nello stesso anno
pubblicò il controverso romanzo autobiografico Il lupo della steppa (Der Steppenwolf), che in un ambito di amaro
romanticismo narra la storia, i sogni e gli incubi di Harry, un solitario
cinquantenne cupo e ombroso con un “Io” diviso in due metà, con due nature
intrecciate (quella divina e quella diabolica) e due anime confuse che convivono
in una continua e mortale inimicizia (quella dell’uomo col suo mondo immortale
di pensieri, sentimenti spirituali ed elevata gentilezza, e quella del lupo col
suo mondo caotico d’istinti selvaggi, libertà e forza indomita).
Durante il nazismo, del quale fu strenuo avversario, Hesse
si legò di amicizia con molti letterati e artisti tedeschi e austriaci (tra i
quali Thomas Mann), con i quali intrattenne un ricco epistolario e che cercò di
aiutare durante il loro esilio politico.
Nel 1930 comparve Narciso
e Boccadoro (Narziss und Goldmund), testo di alta letteratura,
artisticamente perfetto, che fu un grosso successo letterario. Questo romanzo è
ambientato in un vago e affascinante Medioevo e pone in contrapposizione due
diversi protagonisti che nella loro diversità si attraggono e si completano:
Narciso (spirituale e ascetico, vissuto lontano dal fango e dalle tentazioni
del mondo nell’asfissiante atmosfera di un convento) e Boccadoro (artista bello
e istintivo, dal cuore pieno di contrasti e di miserie, amante di una vita
vagabonda senza patria, senza legami e senza fede). Molto sensibile ai materni
«istinti originari», Boccadoro è straordinariamente capace di amare e donarsi:
si sente attratto irrimediabilmente da tutte le donne, nel ricordo della mamma
bella e selvaggia («la Perduta… l’ineffabile Amata») che lo aveva abbandonato
quando era bambino.
Seguirono opere minori, di carattere autobiografico.
Nel 1935 Hermann fu lacerato dal suicidio del fratello Hans,
che si sentiva uno spostato non avendo potuto realizzare le sue tendenze
artistiche ed essendo stato costretto a un’attività di tipo commerciale; questo
tragico lutto familiare gli provocò una nuova grave crisi esistenziale. Nel
1943 uscì Il gioco delle perle di vetro
(Das Glasperlenspiel), strano romanzo di alto contenuto ideale e dal forte
messaggio umano, scritto nell’ambito di una urgenza mistico–religiosa, forse il
compendio più completo di tutti i suoi temi esistenziali più amati.
Nel 1946 ricevette il premio Nobel, conquistando sì la fama
internazionale ma non la piena certezza della sua riuscita letteraria; diceva
di sé «per metà leggenda, per metà ridicola figura». Si ammalò di leucemia, e
morì per emorragia cerebrale a Montagnola (Lugano) il 9 agosto del 1962 all’età
di 85 anni.
Hesse ha sempre amato e ricercato soprattutto il tema del
paese natio, inteso come focolare del cuore e luogo nostalgico della memoria,
l’unico in grado di assicurare serenità e certezza nei duri affanni della vita
(«un pezzetto di patria… appena una parvenza di patria, ma pur cara per lunga
consuetudine»). Definiva la vita come «l’inferno che arde sotto i nostri
piedi»: quella vita che gli aveva procurato spesso grandi tristezze, perché
vissuta attraverso il filtro grigio del “male oscuro” della depressione, la
terribile malattia che tentò di contrastare – sempre e strenuamente – durante
tutta la sua lunga esistenza.
P.S. Molti film sono stati tratti dai testi di Hermann Hesse
- Ricordo il film Steppenwolf
del 1974, adattato dal libro di Hermann Hesse Il lupo della steppa (Der Steppenwolf) (scritto nel 1928), molto
ricco di effetti visivi speciali. Il film vide sette anni di complicata pre–produzione
da parte dei due produttori Melvin Abner Fishman (che era stato uno studente di
Jung) e Richard Herland. Fishman ebbe il merito di stabilire le giuste
relazioni con la famiglia di Hesse per avere i diritti per fare il film (sostenne
più tardi di aver fatto “il primo film junghiano” della storia del cinema)
mentre Herland raccolse i finanziamenti. Anche la regia fu problematica, divisa
tra Michelangelo Antonioni, John Frankenheimer, l'attore James Coburn e alla
fine anche Fred Haines (lo sceneggiatore). Gli interpreti furono Max von Sydow
(Harry Haller), Pierre Clementi (Pablo) e Dominique Sanda (Hermine). Tutte
queste difficoltà più altri errori, inclusa la stampa del colore, fecero sì che
il film fosse poco visto.
- Liliana Cavani nel 1989 diresse Francesco con Mickey Rourke (Francesco) e Helena Bonham Carter (Chiara), Andréa Ferréol (madre di Francesco), Mario Adorf (cardinale Ugolino), Paolo Bonacelli (padre di Francesco) e il bravo Fabio Bussotti (Leone), un docu–dramma che nella forma del flashback racconta la vicenda di San Francesco d'Assisi, che da uomo ricco e cinico si trasforma in un uomo religioso e pieno di umanità, addirittura degno della santità (il film era basato sul Francesco d'Assisi di Hermann Hesse, che Liliana Cavani aveva filmato precedentemente nel 1966 per la televisione con Lou Castel come protagonista). Il film vinse un David di Donatello e due Nastri d’Argento, e ricevette una nomination a un altro David e una candidatura alla Palma d’Oro. La musica suggestiva era del compositore greco Vangelis. Hanno commentato i Morandini: «Nel 1226, morto Francesco, le sue vicende sono raccontate a turno da alcuni suoi compagni tra cui c'è Chiara. È violento e duro già nella cornice ambientale (un'Umbria umida, fosca, ventosa) cui hanno contribuito scene e costumi di D. Donati e la fotografia di G. Lanci e E. Guarnieri. Violento nella rappresentazione di guerra, prigionia, miseria, malattia, nella rievocazione della santità di Francesco, specialmente quando s'interroga, con uno strazio che sfiora la disperazione, sul silenzio di Dio. I suoi difetti sono quasi tutti per eccesso: ridondanza misticheggiante nelle musiche di Vangelis, una certa prolissità, spia di debolezza drammaturgica. Girato in inglese.» (il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandin, Zanichelli editore).
- Liliana Cavani nel 1989 diresse Francesco con Mickey Rourke (Francesco) e Helena Bonham Carter (Chiara), Andréa Ferréol (madre di Francesco), Mario Adorf (cardinale Ugolino), Paolo Bonacelli (padre di Francesco) e il bravo Fabio Bussotti (Leone), un docu–dramma che nella forma del flashback racconta la vicenda di San Francesco d'Assisi, che da uomo ricco e cinico si trasforma in un uomo religioso e pieno di umanità, addirittura degno della santità (il film era basato sul Francesco d'Assisi di Hermann Hesse, che Liliana Cavani aveva filmato precedentemente nel 1966 per la televisione con Lou Castel come protagonista). Il film vinse un David di Donatello e due Nastri d’Argento, e ricevette una nomination a un altro David e una candidatura alla Palma d’Oro. La musica suggestiva era del compositore greco Vangelis. Hanno commentato i Morandini: «Nel 1226, morto Francesco, le sue vicende sono raccontate a turno da alcuni suoi compagni tra cui c'è Chiara. È violento e duro già nella cornice ambientale (un'Umbria umida, fosca, ventosa) cui hanno contribuito scene e costumi di D. Donati e la fotografia di G. Lanci e E. Guarnieri. Violento nella rappresentazione di guerra, prigionia, miseria, malattia, nella rievocazione della santità di Francesco, specialmente quando s'interroga, con uno strazio che sfiora la disperazione, sul silenzio di Dio. I suoi difetti sono quasi tutti per eccesso: ridondanza misticheggiante nelle musiche di Vangelis, una certa prolissità, spia di debolezza drammaturgica. Girato in inglese.» (il Morandini di Laura, Luisa e Morando Morandin, Zanichelli editore).
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