Eugène Ionesco
Cento anni addietro (il
26 novembre del 1912) nasceva il grande commediografo francese di origini
rumene Eugène Ionesco (nato Eugen
Ionescu, morì a Parigi il 28 marzo del 1994) – vedere il mio post del 2 novembre del 2011
per dettagli biografici. In effetti l'età della nascita di Ionesco appare piuttosto controversa,
perché diverse fonti (tra cui l'Enciclopedia britannica) lo danno nato nel
1909. Questa ricorrenza è, però, soltanto un pretesto per parlare del Teatro
dell'assurdo.
Già Alfred Jarry (1873-1907), il creatore della saga di Ubu
– che tentò di vivere una realtà ammantata dalla sua visionaria avventura
letteraria (negli ultimi mesi di vita parlava come Ubu e firmava le sue lettere
col nome Ubu) – aveva aperto la strada al Teatro dell'assurdo, nascondendo la
sua disperazione esistenziale nella distorsione dell'uomo e della società allo
specchio deformante di una rappresentazione grottesca, così anticipando il
Surrealismo dadaista. Un “fil rouge” lega senz'altro Ionesco al grande Jarry
che, per primo, iniziò a disgregare il teatro borghese realista di fine
Ottocento servendosi della parodia e del grottesco.
Ionesco incontrò quel “nouveau théâtre”, che – radicalmente
opposto al realismo – sovvertiva la scena parigina ed europea del secondo
dopoguerra, e lo fece suo in «una frantumazione del tutto esteriore»; egli preferì,
però, parlare di “teatro della derisione” perché nel suo teatro – con
l'insensatezza e la ripetitività dei suoi dialoghi e con la successione di
eventi privi di significato – aveva privilegiato l'aspetto ridicolo e l'humour
acido dell'esistere disperato dell'uomo moderno in una società umana priva di
realtà e svuotata nella disgregazione. In un suo saggio su Kafka, Ionesco aveva
scritto: «recise le sue radici religiose, metafisiche e trascendentali, l'uomo
è perduto; tutte le sue azioni diventano insensate, ridicole, inutili» e, in
occasione della sua prima pièce La
Cantatrice Calva (La Cantatrice chauve) (1950), aveva parlato di «tragedia
del linguaggio». E non si debbono dimenticare Jean Vauthier (1910-1992) con il
suo Capitaine Bada (1950), il quale
aveva privilegiato la ricerca interiore di tipo poetico– onirico e i valori del
gesto e del ritmo, e Jean Genet (1910-1986), scoperto da Jean Paul Sartre – nel
suo saggio San Genet, commediante e
martire del 1952, Sartre ne glorificò la “primitiva ingenuità” e il “ragionatissimo
mimetismo da grande guitto” – , il quale aveva detto di voltare le spalle
all'Essere per abitare il Nulla e di preferire l'Immaginazione al Realtà (da
ricordare Le cameriere - Les Bonnes
del 1947). E neppure bisogna dimenticare Arthur Adamov (1908-1970), drammaturgo
francese di origine armena, considerato uno dei padri del teatro dell'assurdo: con
i suoi drammi satirico–grotteschi (da ricordare soprattutto La Parodie del 1949), ha riportato la
dissacrazione del linguaggio e la distorsione delle regole teatrali a un
esplicito e «violento» intento polemico socio–politico.
Il termine di “Teatro dell’assurdo” fu coniato dal critico e
drammaturgo anglo–ungarico Martin Esslin (1918-2002), che nel 1961 aveva
pubblicato The Theatre of the Absurd,
nel quale scriveva: «per la prima volta l'Assurdo filosofico e l'Assurdo
poetico e scenico sono perfettamente fusi». Con quel termine si definì lo stile
teatrale di quei drammaturghi europei (e non solo) che tra gli anni 40–60
realizzarono nell'arte drammatica il concetto filosofico esistenzialista
dell'assurdità dell'esistenza, sulla via segnata dagli scritti di Jean-Paul
Sartre e Albert Camus. Il “Théâtre de l’absurde” ha, quindi, una chiara origine
geografica nella Parigi dell'avanguardia e nei teatrini de “la Rive gauche”, prevalentemente
del “Quartier latin”.
Quasi contemporaneamente, l'irlandese Samuel Beckett
(1906-1989) distruggeva il linguaggio col silenzio ma in una grande ricchezza
di «densità letteraria ed esistenziale» nel suo Aspettando Godot (Waiting for Godot) (1953) – e il nucleo dell'opera
stava nella battuta: «Non succede nulla, non viene nessuno, nessuno se ne va, è
terribile». Quel “fil rouge” legava anche Harold Pinter (1930-2008) in
Inghilterra che – amico ed estimatore di Beckett – esordì nel 1957 con l'atto
unico La stanza (The Room) ed Edward
Albee (1928-) negli Stati Uniti – vincitore di tre premi Pulitzer – che (ispirandosi
a Ionesco) nel suo dramma Chi ha paura di
Virginia Woolf? (Who's Afraid of Virginia Woolf?) (1962) svelava la
drammatica solitudine dell'uomo nascosta sotto la crosta dell'ipocrisia
piccolo–borghese. E forse sarebbe anche da ricordare come partecipe del teatro
dell'assurdo l'autore italiano Achille Campanile, il quale però mai accettò
però questo legame.
Nel Teatro dell'assurdo l'autore, deliberatamente, decideva
di non utilizzare la costruzione tradizionale drammaturgica e il logico linguaggio
razionale per accettare soltanto una traccia labile che univa eventi effimeri
(spesso non accadeva nulla) o stati d'animo senza alcun significato apparente (i
personaggi spesso non avevano identità), entrambi espressi attraverso dialoghi
ripetitivi, sconnessi e insensati, eppur capaci di suscitare un sentimento del tragico.
Il “Théâtre de l’absurde” non fu però né un movimento né una scuola, essendo
tutti gli autori che ne facevano parte degli individualisti “estremi” e
costituendo un gruppo quanto mai eterogeneo (ciò che avevano in comune era il
non appartenere al contesto borghese e il rifiuto totale del teatro
tradizionale borghese).
A proposito di quei drammaturghi considerati appartenenti al
Teatro dell'assurdo, è stato commentato:
«I loro testi teatrali non intendono trasmettere delle informazioni, né
presentare i problemi o i destini di personaggi, né esporre tesi o discutere
ideologie, ma solo tradurre in un coerente “reticolo” di immagini poetiche la
realtà interiore dell'autore. Altrettanto significativa è la posizione verso il
linguaggio; ma è in essa che si rivela la fragilità della etichetta comune. […]
Il teatro dell'assurdo ebbe grande fortuna presso il pubblico e presso i
teatranti, ma scarsa influenza nello sviluppo delle nuove forme teatrali.» (La Nuova Enciclopedia della Letteratura Garzanti,
Garzanti Editore, 1985).
Lungi
dal costituire un gioco senza senso (come può sembrare in apparenza), il Teatro
dell'assurdo lacerava il conformismo e le banalità che minavano l'individualità
dell'uomo e che esprimevano l'incapacità umana a comunicare. Lo stesso Ionesco
sapeva che il suo teatro assolutamente comico, le sue anti–commedie, il suo
anti–teatro, le sue farse tragiche nascevano da una visione pessimistica
dell'esistenza, caratterizzata da solitudine, isolamento e impossibilità a comunicare
con gli altri, e soffocata dal conformismo della società, dall'incertezza della
propria identità – i personaggi sono spesso ridotti al ruolo di “pantins”
(marionette) – e dall'angosciosa paura della morte. Certamente i protagonisti
di questo teatro erano soprattutto degli anti–eroi e dei mediocri alle prese
con la loro miseria metafisica, in un mondo ostile e in un agitarsi senza
scopo, spinti da negative forze invisibili.
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