Sibilla Aleramo Giuliana De Sio
Il romanzo popolare e quello d’appendice – nei quali è soprattutto
protagonista l'amore – costituiscono due generi letterari interessanti
e da non sottovalutare; tra l’altro, per alcune pagine di questi libri, il
confine con la letteratura alta è veramente labile e incerto.
Il grande
pensatore e politico sardo Antonio Gramsci (1891-1937), tra i fondatori del
Partito Comunista, nei suoi Quaderni dal carcere ha fatto una
valutazione positiva del romanzo “social–popolare” e dei suoi eroi, che «quando
sono entrati nella sfera della vita intellettuale popolare, si staccano dalla
loro origine letteraria per acquistare la validità del personaggio storico».
Nella
raccolta di saggi Tre donne intorno al cor… Invernizio, Serao, Liala (La
Nuova Italia, Firenze, 1979), che prende il titolo dalla nota canzone
allegorica di Dante “Tre donne intorno al cor mi son venute”, Umberto Eco ha
coordinato diverse voci autorevoli in favore di questa forma di letteratura
popolare.
Nell’ambito
di questa letteratura popolare degna di attenzione, desidero citare Una
donna, il romanzo autobiografico scritto nel 1906 da Sibilla
Aleramo, pseudonimo di Rina Faccio (1876-1960), ricco di amore negato e
passione, e animato da una femminilità tanto audace da rasentare un femminismo
ante–litteram (ebbe un gran successo venendo tradotto in varie lingue). Di
Sibilla e della sua vita inquieta si ricorda la relazione tormentata con Dino
Campana (1885-1932), sensibile poeta tormentato dal “male oscuro” della
psicopatia, e il suo impegno accanto a Giovanni Cena (1870-1917), col quale
ebbe un rapporto sentimentale e con il quale si dedicò a una intensa opera di
assistenza e promozione culturale delle donne umili dell'Agro pontino ciociaro.
Il romanzo – che svela già tutte
le componenti della personalità della scrittrice, una individualista con una forte
sensibilità sociale – racconta
in prima persona la vita di una donna anticonformista sin dalla fanciullezza che
tale rimane sino alla maturità. Mentre il padre è un uomo forte, un industriale
capitalista che sa trasmettere alla figlia degli ideali d’indipendenza, la
madre le offre un modello di carattere assolutamente antiquato (troppo mite e sottomessa,
andrà inevitabilmente verso la nevrosi e la demenza progressiva, finendo la sua
esistenza in manicomio). La relazione extraconiugale del padre e una violenza
sessuale subita da un suo impiegato mutano lo sguardo di Sibilla nei confronti
del mondo maschile e maschilista. Costretta dal pregiudizio imperante a un matrimonio
infelice con il suo violentatore, il marito si rivelerà un uomo gretto e
brutale, e neanche la nascita di un figlio riuscirà a migliore un rapporto
malato, portando la donna alla depressione e a un tentativo di suicidio.
Trasferitasi con la famiglia a Roma, Sibilla collabora con una rivista
femminile e quel lavoro intellettuale la rende più consapevole della sua
identità femminile. Sarà in grado, infine, di lasciare il marito–padrone, pur
sacrificando il figlio e il suo amore per lui, per riaffermare la sua dignità
di donna. Nel 1977 ne è stato tratto uno sceneggiato televisivo in sei puntate per
la regia di Gianni Bongioanni (sceneggiatura di Bongioanni e Carlotta Wittig)
con Giuliana De Sio, Ileana Ghione, Biagio Pelligra, Ivo Garrani, Giovanni
Pallavicino ed Emilio Cigoli. Aldo Grasso nella sua Enciclopedia della
televisione (Televisione, le
garzantine, Garzanti editore, Milano 2008) osserva come romanzo e sceneggiato
raccontino «il desiderio di emancipazione femminile agli inizi del secolo
attraverso la vicenda della protagonista Lina (De Sio), drammaticamente divisa
tra costrizioni sociali e aspirazioni personali».
Non posso
dimenticare, inoltre, i libri sentimentalmente tormentati di Luciano Zùccoli
(1869-1929), specie La freccia nel fianco, che a
partire dagli anni venti ha avuto numerose ristampe e un grande successo di
pubblico. Mi piace raccontarvi qualcosa
della trama del romanzo che narra l’amore fatale tra Bruno Traldi di San
Pietro, detto Brunello, e Nicoletta Dossena, detta Nicla, conosciutisi quando
lui era ancora soltanto un bambino. Brunello è «un piccolo uomo» precoce e seduttivo, conteso tra i
genitori separati, e Nicla è «una ragazza» già delusa dalla vita. Insieme con il papà Fabiano, un gaudente
scapestrato e un giocatore sfrenato, Bruno conduce una vita da piccolo adulto
insieme alle giovani e corrotte compagne di lui. Accanto alla mamma, Clara
Dolores, egli invece diventa un altro: «il bambino tornava bambino». Il libro consta di due parti. La “Prima parte” narra l’idillio giovanile tra Brunello e Nicla, casto e puro, pieno di
tenerezza anche se venato di sensualità. Come tutte le donne dei primi del
Novecento, Nicoletta è costretta a subire il volere dei genitori gretti e
meschini, che conculcano le sue aspirazioni artistiche e che – per il desiderio
di un titolo nobiliare – auspicano un suo matrimonio con Duccio Massenti, un
conte ricco e vacuo, un uomo indegno di lei, che «conduceva nello stesso
tempo due intrighi»: l’«avventura piacevole» con la mamma di Brunello «e il
matrimonio solido» con Nicla. La
ragazza respinge Duccio con «un rifiuto definitivo e senza discussione». Le anime di Brunello e di Nicla si
somigliano, e i due diventano inseparabili e indispensabili l’uno all’altra, in
una comunanza di vita e di sentimenti, sorprendente a causa della gran
differenza d’età. Nicla è convinta che Brunello è venuto a cercarla come un
piccolo Amoretto, e gli recita e canta gli amati romantici versi che il fanciullino
ascolta con beatitudine mentre riceve le sue carezze quasi materne. Inseguito
dai creditori, purtroppo, il padre fugge di notte all’improvviso portando con
sé il bambino, senza che Brunello e Nicla possano salutarsi un’ultima volta.
Attraverso il vetturale Brunello le promette che ritornerà e la prega di
aspettarlo. E Nicla decide di aspettarlo per sempre, anche se forse invano!
Nella “Seconda parte”, è raccontato il matrimonio di Nicla con
Gigi Barbano, un onesto industriale del sapone, buono e sensibile, che ama la
moglie e che per amor suo accoglie con fraternità e affetto il suo protetto;
egli assiste poi impotente al trascolorare dell’idillio casto e tenero in una
passione amorosa travolgente, che porta all’inevitabile adulterio e al tragico
suicidio di Nicla. La lunga
parte finale del libro è tutta dedicata a questo amore svelato ma fatale.
Entrambi gli innamorati sperano di potersi accontentare di un affetto da
fratello e sorella, ma ciò è impossibile, perché Nicla «spasimava per
quella freccia di cui doveva portare il peso e il segno nel fianco tutta la
vita». Nella campagna, ove si erano incontrati
ragazzi e si erano donati reciprocamente l’anima e i pensieri (là dove i loro
destini si erano fusi per sempre), in preda all’appassionata ondata dei
ricordi, Nicla e Bruno si amano appassionatamente. Nicla, il mattino dopo,
durante una tempesta, si lascia inabissare nelle onde paurose del lago con la
sua piccola lancia, mentre Bruno (che è stato richiamato a Milano dalla madre),
quando sa della morte dell’amata, crolla di schianto restando malato a lungo.
Si strugge per mesi in «una invincibile malinconia», che gli ispira un libro che è «un
poema di sconfinata angoscia» e che ne
rivela il genio dandogli la gloria. Sulla candida tomba di Nicla: «Chiedeva
a quella memoria la forza di vivere, come aveva giurato. Dandosi a lui per
sempre, Nicla gli aveva gettato ai piedi l’aulente corona della vita. Ed egli
gettava ai piedi della cara ombra la corona intossicata della gloria.».
Spero di essere
riuscita nella difficile impresa di rendere in queste poche righe il succo del
racconto e l’atmosfera così intensamente romantica (qualcuno forse parlerebbe
di “romanticume”), oltre al profumo retrò di questo strano
romanzo sentimentale, tipica esemplificazione della letteratura di gusto
dannunziano del primo Novecento. Prima della pubblicazione in volume nel 1913,
il testo uscì a puntate nello stesso anno sulla rivista “La Lettura”. Pur non essendo di altissima qualità, la
scrittura sembra a me non priva di fascino e nobiltà (a me è capitato di
leggerne una vecchia copia conservata nella vetusta biblioteca di casa). Nella
trama, inoltre, si nota un certo approfondimento della psicologia infantile (col
suo primo risveglio dei sensi e del sentimento amoroso) e una discreta analisi
dell’inquieto sentimentalismo femminile d’inizio Novecento. La critica non
attribuisce un gran ruolo a questo artista, il quale apparteneva a una larga
schiera d’autori (comprendente Guido da Verona, Lucio D’ambra e Pittigrilli)
che, nell’ambito di un realismo sentimentale e di un lieve gusto liberty,
strizzavano l’occhio soprattutto alle vendite e al mercato. Essi fornivano al
pubblico del tempo ciò che esso desiderava, vale a dire, trame ricche di colpi
di scena (talora piuttosto ripetitive) e intrise di sensualità ed erotismo
decadente. Non bisogna dimenticare però che, durante il fascismo, questi autori
furono molto noti e più popolari di altri grandi letterati che allora si
affacciavano sulla scena letteraria, quali Aldo Palazzeschi, Carlo Emilio
Gadda, Alberto Moravia ed Elio Vittorini. Per esempio, il successo di questo
romanzo fu tale che sino alla morte di Zùccoli il libro fu ristampato ogni
anno.
Luciano Zùccoli è
lo pseudonimo del conte Luciano von Ingenheim, uno scrittore svizzero naturalizzato
italiano (Zùccoli era il nome della madre), discendente da un’aristocratica famiglia
d’origine tedesca, che è stato molto letto e conosciuto all’inizio del
Novecento ma che oggi è alquanto dimenticato. Nacque a Calprino nel Canton
Ticino nel 1868; fu dapprima un ufficiale di cavalleria, poi giornalista e romanziere.
Dal 1898 al 1900 fu direttore de “La provincia di Modena” (giornale da lui
fondato), quindi dal 1903 al 1912 condirettrore e poi direttore de “La
Gazzetta di Venezia” (che dovette lasciare
per contrasti con la proprietà del giornale a causa del suo feroce
antisemitismo). Fu poi collaboratore letterario del “Corriere della Sera” e “Illustrazione italiana”, e infine passò
definitivamente dal giornalismo alla letteratura. In modo snobistico e
autocelebrativo si definiva: «Riottoso
e prepotente, bevitore e libertino, beffardo e cinico». Dopo aver perso la moglie, che pose fine
alla sua vita col suicidio, si risposò con una giovane donna e si trasferì a
Parigi.
Dal 1893 alla sua
morte (avvenuta a Parigi il 26 novembre del 1929 per una polmonite),
ispirandosi al romanzo francese contemporaneo, Zùccoli scrisse tutta una lunga
serie di estese narrazioni e di brevi racconti di argomento “mondano”, nei quali con raffinata sensibilità e
lieve superficialità ha rappresentato soprattutto i vizi e le virtù dell’alta
borghesia (libera da impegni di lavoro e da problemi di denaro), che ben conosceva
e cui apparteneva. Tra gli altri suoi romanzi, ricordo I lussuriosi (1893) – il primo romanzo pubblicato all’età di 25 anni – , Il designato (1894), Roberta (1895), Il maleficio occulto (1901), Ufficiali, sottufficiali, caporali e soldati... (1902), L’amore di Loredana
(1908), Farfui (1909) – un altro buon romanzo – , I
piaceri e i dispiaceri di Trottapiano (scritto per i ragazzi nel 1914), Baruffa (1917), La divina
fanciulla (1920), Le cose più grandi di lui (1922) – vero bestseller degli anni
venti – e Persiana, pubblicato postumo nel 1930. Zùccoli nel
1924 scrisse la sua autobiografia dal titolo Luciano Zuccoli raccontato da Luciano Zuccoli.
Per la costruzione teatrale perfetta e per la
presenza di situazioni fortemente drammatiche, diversi suoi romanzi, adatti a
divenire delle sceneggiature, sono stati trasposti con buon successo per il
cinema. Alberto Lattuada nel 1943 iniziò a lavorare al film “La freccia
nel fianco” (per la sceneggiatura di
Ennio Flaiano, Cesare Zavattini e Alberto Moravia) ma ne abbandonò la lavorazione
dopo l’8 Settembre; il film (prodotto da Carlo Ponti) fu poi completato da
Mario Costa nel 1945 con Leonardo Cortese, Mariella Lotti, Roldano Lupi e Paola
Borboni (il film non ebbe grande successo ma è stato rivalutato in quest'ultimo
decennio). Nel 1975 Ugo Gregoretti ha girato una parodia de La freccia nel fianco nel film dal titolo omonimo. Nel 1976
Giuseppe Patroni Griffi ha tratto il film “Divina creatura” dal romanzo di Zuccoli La divina
fanciulla (1920), con Laura Antonelli, Terence Stamp e Marcello
Mastroianni. Il film – che si aggiudicò due Nastri d'argento per la migliore
scenografia e i migliori costumi – è stato definito da Il Dizionario Mereghetti
«una rivisitazione calligrafica e ridondante del romanzo» (cui vengono meno l’ironia
e la valenza femminista del racconto letterario); il Dizionario Morandini ha
parlato di «cinema di grande sartoria» ma anche di «stolida e tragicomica
burattinata, sontuosamente arredata, che si prende terribilmente sul serio» e
ha giudicato l’Antonelli «inascoltabile» nel suo personaggio «senza spessore» (l'attrice
è divenuta, tuttavia, una icona sexy del cinema italiano per il suo superbo
nudo integrale).
I romanzi
di Zùccoli possono considerarsi appartenenti alla “letteratura rosa”. Oggi, il
romanzo rosa in Italia ha passato il testimone ai libri di Maria Venturi e
Sveva Casati Modignani, mentre in Inghilterra si sono diffusi i romanzi di
Barbara Cartland (scrittrice straordinariamente prolifica) e di Rosamunde
Pilcher, con le loro protagoniste contemporanee ma sempre molto romantiche,
oltre a Helen Fielding che – con
quella simpatica pasticciona di Bridget Jones – ha donato al genere un po’ di pepe erotico e una
ventata fresca di “verve”. In America, invece, il romanzo rosa moderno ha
assunto tinte più ciniche e si è infarcito di forte erotismo: un nome per
tutti, quello di Danielle Steel. Come non ricordare, ancora, la trilogia di Cinquanta sfumature di grigio, nero e rosso
di E.L. James, grande successo di pubblico, o Diario di una sottomessa di Sophie Morgan, o Tutte le feste di domani di Veronica Raimo, o Cinquanta sfumature di estasi di Marisa Bennett, oppure 90 giorni di tentazione di Lucinda
Carrington, rosa ma anche porno–soft.
Appare
chiaro che questa letteratura popolare non mi dispiace! Nella mia predilezione
per essa mi ritrovo in ottima compagnia: la grande Grazia Deledda, premio Nobel
nel 1926, nel suo accolturamento da autodidatta, lesse con entusiasmo le storie
d’appendice di Carolina Invernizio (1851-1916), autrice appassionata di romanzi
truculenti e pieni di amori contrastati, rapimenti di dolci fanciulle,
intricate vicende criminali e fosche avventure familiari grondanti sangue e
raccapriccio (non mancavano, però, mai né il lieto fine né la redenzione
dell’eroe pieno di coraggio o dell’eroina irresistibile). I romanzi Il
bacio di una morta e La vendetta di una pazza della
Invernizio (ristampati dalla Mursia), già dai soli titoli lasciano presagire
sterminati panorami di avventure amorose e di pathos. Nella sua prima produzione
letteraria, Deledda s’ispirò anche ai romanzi “feuilleton” di Ottavio Feuillet
(1821-1890), soprattutto al notissimo Il
romanzo di un giovane povero, e di George Ohnet (1848-1918),
specialmente al suo Il padrone delle ferriere; da giovanissima, inoltre,
scrisse racconti per un giornale di moda.
Naturalmente
si tratta di letteratura femminile; infatti, l’approccio all’amore presenta
differenze profonde nei diversi sessi, che naturalmente si rispecchiano nella
letteratura. Karen Blixen (1885-1962), la grande scrittrice danese autrice di La
mia Africa, a proposito delle differenze tra i due sessi, scriveva:
«La donna si accontenta di essere; l’uomo ha bisogno di fare». Io aggiungerei
che la donna si accontenta di essere, e soprattutto di essere amata e di amare;
a differenza dell’uomo che presta grande attenzione alla razionalità e non si
concede debolezze. La donna, infatti, si limita spesso a coltivare con cura
soltanto l’orticello del suo mondo emozionale. Molte donne vivono nel mito di
un amore appassionato e di due cuori straripanti, e coltivano la speranza di
sperimentare nella loro vita l’amore–passione
travolgente, sperando d’impadronirsi del cuore di un uomo perché possa divenire
l’unico scopo della loro vita. è stato,
forse, proprio questo atteggiamento che ha ostacolato quella liberazione della
donna auspicata dalle femministe, e la piena realizzazione femminile nel
lavoro, nella carriera e nella politica.
Concludendo,
a mio parere, il romanzo popolare non appartiene a un genere inferiore ma
rappresenta un tipo di letteratura minore e diversa ma certamente utile, avendo
il merito di avvicinare al libro e alla lettura anche i lettori più semplici e
più impreparati dal punto di vista culturale. Credo poi, che leggere sia pur
sempre un bene per lo sviluppo dei sentimenti umani e – se moltissimi lettori leggono questi romanzi – ciò deve pur significare qualcosa.
Purtroppo, nell’odierna cultura di massa, anche la lettura di tali libri (come
di quelli letterari propriamente detti) è molto diminuita, sostituita dalla
visione in TV dei “reality show”.
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