Johann Wolfgang
Goethe
Qualche anno prima delle Ultime lettere di
Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo
(1778-1827), un altro testo aveva celebrato, in forma epistolare e con la
medesima grande ispirazione, l’amore e il suicidio: era il romanzo I
dolori del giovane Werther (1774) del poeta e scrittore tedesco Johann
Wolfgang Goethe (1749-1832).
Ortis e
Werther sono fratelli nel mal d’amore e nell’infelice destino finale. Il
romanzo epistolare di Goethe – la forma si presta mirabilmente a legare i
momenti lirici con i brani di tipo narrativo – è stato definito il «primo
successo mondiale tedesco»; di carattere autobiografico, privilegia la forza della
fantasia nella voluttà dell’amore e della morte. Simbolo dell’amore romantico,
questo testo è riuscito a esprimere una condizione umana universale,
influenzando innumerevoli generazioni di giovani, anche se dai moralisti del
tempo fu accusato d’indurre gli amanti infelici al suicidio.
Tra il
maggio e il settembre del 1771 Goethe era stato a Wetzlar come praticante
presso il tribunale e si era innamorato di Charlotte Buff (fidanzata a un
altro, J.Ch. Kestner): di ritorno a Francoforte, il poeta traspose questo amore
irrealizzabile nel suo romanzo epistolare. Lo stesso Goethe scrisse ammise di
avere «ucciso il suo eroe per salvare se stesso».
Werther è un
giovane sensibile ed entusiasta; quando si innamora, si sente cambiato – quasi cresciuto d’importanza
– e scrive a Guglielmo (il romanzo consiste per
l’appunto nelle lettere inviate da Werther all’amico
tra il 4 maggio e il 6 dicembre del 1771): «Ma io l’ho avuta: ed io ho sentito
il suo cuore e la sua anima, la cui presenza mi faceva essere più di quello che
io sono, perché ero tutto ciò che io posso essere […] Sento che ella mi ama! Mi
ama… Come sono diventato caro a me stesso! […] come appaio elevato ai miei
stessi occhi, da quando ella mi ama! è presunzione
questa? Od è invece la coscienza dei veraci sentimenti che ci legano? […] O
Guglielmo, la nostra anima che cosa diverrebbe senza l’amore? Simile ad una
lanterna magica senza luce.». Quando però deve rinunziare a Carlotta (che
diviene sposa del buon Alberto, cui era stata promessa dalla madre morente che
le aveva affidato i numerosi fratellini), Werther scrive: «[…] da allora il
sole, la luna e le stelle possono continuare tranquillamente il loro corso, io
non so se sia giorno o notte, e tutto il mondo scompare d’intorno.». Guglielmo
è preoccupato per le parole di Werther, che paragona il suicidio alle grandi
imprese, che è preso da una furente e sconfinata passione, e che parla di
«esiziale passione che consumerà tutte le tue energie» e di desiderio di «distruggere
le sue pene nella morte che tutto annienta».
Quando ormai
sanno che debbono lasciarsi, Carlotta dice all’amato Werther: «Noi
sopravviveremo! […] Ma, Werther, ci ritroveremo? Potremo riconoscerci? Che cosa
crede, che cosa dice lei?»; e Werther, con gli occhi pieni di lacrime, le
risponde: «Ci rivedremo! Quaggiù o lassù, noi ci rivedremo! […] Ci rivedremo,
esclamai, ci ritroveremo, e ci riconosceremo fra tutti.». E poi scrive all’amico:
«Non riuscii a proseguire. Guglielmo, doveva ella farmi una domanda simile,
mentre avevo il cuore colmo dell’angoscia e dell’addio?».
Straziato,
per il bene di entrambi, Werther decide di allontanarsi e Carlotta sposa il suo
Alberto. Werther è talmente triste per la lontananza che così scrive all’amico:
«Non so precisamente perché mi alzi, perché vada a dormire. Mi manca il lievito
che mette in fermento la mia vita; è svanito il fascino che mi teneva desto
sino a tarda notte; è finito l’incanto che al mattino mi destava dal sonno. […]
Se ella mi dimenticasse diventerei pazzo. […] Io… suo marito […] Ella, mia
moglie! […] Devo dirtelo? Perché no, Guglielmo? Ella sarebbe stata più felice
con me che con lui. Oh, non è questo l’uomo che possa appagare tutti i desideri
del suo cuore. Una certa mancanza di sensibilità, una noncuranza… chiamala come
vuoi…; ma io non sento il suo cuore battere all’unisono con quello di lui, su
qualche libro prediletto, dove invece il mio cuore e quello di Carlotta hanno
un medesimo battito […] Vedi, quello che mi turba di più è che Alberto non mi
sembra così felice come… sperava, come potrei esserlo io se… […] Ah, qual
vuoto! Quale orribile vuoto sento nel mio petto! […] ho tante cose e senza di
lei ogni cosa si dissolve […] Nell’animo mi si nasconde la fonte di ogni dolore
[…] Soffro molto perché non ho più quella che era per me l’unica gioia della
mia vita, la santa forza animatrice con cui creavo mondi intorno a me.».
Dinanzi agli
splendori di quella Natura che prima lo esaltavano, Werther si sente come «una
fonte inaridita… un secchio svuotato… un uomo finito»; ritornato a casa accanto
a Carlotta, scrive angosciato all’amico (nell’ultima lettera inviatagli il 6
dicembre del 1771): «Ella non ha coscienza di preparare un veleno che ci
trascinerà entrambi in un precipizio […] Ella sente quanto io soffra; oggi il
suo sguardo mi è sceso fin nel fondo dell’anima […] Come la sua immagine mi
perseguita! Che io vegli o sogni, mi riempie tutta l’anima. Qui, se chiudo gli
occhi, qui sulla mia fronte, dove si racchiude tutta la potenza visiva, stanno
i suoi occhi neri. Qui! Non te lo so spiegare. Io chiudo gli occhi, ed eccoti
come un oceano davanti a me, dentro di me, occupano tutti i miei pensieri.». Da
medico esperto delle tante sofferenze umane, intravvedo in Werther tutti i
segni funesti di una bruttissima depressione! La tristezza e lo scoraggiamento
hanno infatti distrutto l’armonia dello spirito di Werther: si sente «escluso
da ogni possibilità per l’avvenire», sente la sua passione sconfitta e
inappagata, e muove sempre più inesorabilmente verso la sua triste fine; tra l’altro,
anche la Natura sembra porsi contro di lui, distruggendo con una tremenda
inondazione la valle che viene trasformata in un mare tempestoso: il giovane sente
quasi l’impulso a inabissarsi ma non è ancora arrivata la sua ora. Con voluttà Werther
sogna di stringere Carlotta e di sommergere di baci la sua bocca ma avverte
anche il desiderio di sparire: «Sollevare il sipario ed introdurvisi: questo è
tutto! Perché indugiare, perché temere? Forse perché c’è ignoto cosa avviene al
di là di esso? O perché di là non si ritorna? Perché la nostra mente è fatta in
modo da pensare che vi siano tenebre e caos là dove non sappiamo nulla di
certo.».
Di giorno in
giorno, di ora in ora, la sua decisione distruttiva si rafforza; in un’ultima
lettera scrive all’amata: «Ho deciso, Carlotta, voglio morire; io ti scrivo
senza romantiche esaltazioni, calmo, la mattina dell’ultimo giorno in cui ti
vedrò. […] Non è disperazione: è la consapevolezza di aver esaurito il mio
compito e di sacrificarmi per te. Sì, Carlotta, perché dovrei tacerlo? Uno di
noi tre deve sparire, e voglio essere io quello! […] Ero tranquillo,
cominciando a scrivere, ed ora… ora piango come un bambino, pensando al
rigoglio di vita che si svolge intorno a me […] Io voglio, devo! Come sono
felice di aver deciso!». Werther e Carlotta s’incontrano, e lei si fa leggere
da lui le tristi vicende amorose narrate da Ossian; spinti dall’emozione del racconto,
si perdono in un abbraccio e in un bacio appassionato, e Carlotta fugge
«tremando d’amore e ira» e dicendo che non s’incontreranno mai più. Ritornato a
casa distrutto, Werther aggiunge alla lettera per Carlotta la sua ultima
testimonianza: «Per l’ultima volta apro gli occhi […] o Natura, metti il lutto!
Tuo figlio, il tuo amico, il tuo amante, sta vivendo la sua fine […] Che cosa
significa morire? La morte è un sogno […] Come posso io morire? Morire? Che
cosa significa? Questa parola non ha senso per me. […] Perdonami, perdonami!
Ieri… Ieri avrebbe dovuto essere l’ultimo istante della mia vita. Mio angelo!
Per la prima volta, per la prima volta, questo sentimento pieno di desiderio mi
ha sconvolto: ella mi ama! Mi ama! Il sacro fuoco che fluiva dalle tue labbra
brucia ancora in me; un nuovo ardore è nel mio cuore. Perdonami, perdonami! […]
Questo braccio l’ha stretta, queste labbra hanno tremato sulle sue labbra,
questa bocca ha sussurrato sulla sua. Ella è mia! Sei mia, Carlotta, per
sempre! […] Io ti precedo […] io ti verrò incontro e ti abbraccerò, e resterò
con te in un eterno abbraccio al cospetto dell’infinito. Non sogno, non
vaneggio! Vicino alla tomba tutto è più chiaro. Noi vivremo, ci rivedremo […]
il mio destino si compie! Carlotta, addio! Addio!». E Werther si spara alla
testa con una delle due pistole avute in prestito da Alberto e spolverate
proprio da Carlotta, che alla notizia del suicidio resta così sconvolta da far
temere per la sua vita. [I brani riportati sono tratti da: Goethe J.W., I dolori del giovane Werther, a cura di Angelo G. Sabatini,
Newton Compton Editori, Roma, 1993]
Come scrive
Angelo G. Sabatini, il curatore dell’edizione integrale del testo di Goethe del
quale mi sono servita per le citazioni, questo romanzo è «la storia di un amore
moderno vissuto nello spirito della tragedia antica […] il simbolo della
passione sfrenata e travolgente, a cui si attribuisce la paternità dello “Sturm
und Drang” […] Werther ama; Carlotta ama l’amore di Werther.». Ricordo che lo
“Sturm und Drang” (letteralmente “Tempesta e Impeto”) fu il movimento cultural–letterario fiorito tra
il 1770 e il 1785 e divenuto sinonimo di ribellismo giovanile, che incarnò la
rivolta dei giovani intellettuali contro le superate condizioni socio–politiche della Germania del tempo.
Johann
Wolfgang Goethe nacque a Francoforte Sul Meno il 28 agosto del 1749 in un’agiata
famiglia (era il primogenito di un consigliere imperiale), e si dimostrò un
genio precoce imparando facilmente diverse lingue straniere (oltre alla lingua
tedesca, parlava il latino, il greco, il francese, l’italiano, l’inglese e
l’ebraico). Compì i suoi studi prima a Francoforte, quindi a Lipsia per gli
studi di Legge, e infine a Strasburgo. Quelli furono anni d’intenso
coinvolgimento culturale e di svariati interessi (tra i quali la medicina, le
arti figurative, il disegno e la musica) ma anche di dispiaceri e
preoccupazioni (una breve e infelice relazione sentimentale con Kathchen
Schonkopf e una seria malattia, caratterizzata da coliche e vomito ematico, al
suo ritorno a Francoforte nel 1768). In quel periodo, venendo in contatto con l’ambiente
religioso dei pietisti, Goethe conobbe Susanne von Klettenberg, una signora
quarantacinquenne amica della madre, che lo ispirerà per il personaggio dell’«anima bella» nel Meister.
Nel 1770 s’innamorò
di Friederike Brion, la figlia del pastore protestante di Sesenheim, e quest’amore
gli diede così tanta gioia e soddisfazione da ispirargli delle bellissime poesie,
mentre il senso di colpa seguito alla fine dell’idillio gli suggerì le parti
più coinvolgenti del rapporto di Faust con Margherita. Nel 1771 Goethe scrisse
una prima versione (la seconda fu pubblicata nel 1773) del dramma Gotz von Berlichingen, imperniato su un
cavaliere dell’epoca della Riforma che con il suo “ribellismo libertario” aveva sollevato i giovani scrittori dello Sturm und Drang. In quel periodo, le sue
poesie grondavano una “consapevolezza orgogliosa” della lotta e del dolore degli uomini, mentre vivido era
il “senso della vita dell’umanità come acqua
che scorre dalla sorgente al mare”: si è parlato di «momento titanico» di
Goethe, che ispirò i versi del cosiddetto “Ciclo
del viandante” (1772-1774) e che si concluse (quando
il poeta era già a Weimar) con il Viaggio
d’inverno nello Harz (Harzreise im Winter).
Nel 1771 Goethe
pubblicò I dolori del giovane Werther
(Die Leiden des jungen Werther) e il successo fu così travolgente e ko
scandalo suscitato tale che fecero di Goethe un idolo e una stella splendente nel
firmamento della scena letteraria internazionale.
Goethe
s’innamorò di nuovo di Lili Schònemann, figlia sedicenne di un banchiere, e
questo diverso sentimento gl’ispirò numerose poesie, il dramma Clavigo (che ha per protagonista un fidanzato
infedele), e quello che è stato considerato un “dramma per innamorati”, Stella, dedicato
al tema del “doppio matrimonio”. Anche questo fidanzamento finì male e la rottura arrivò nel
1775, anno in cui Goethe divenne il precettore del duca di Weimar Karl August (di
appena diciotto anni) e si trasferì a Weimar, piccola capitale che contava
allora appena seimila abitanti di un ducato minuscolo e arretrato.
Nel decennio
1775-1778 lo scrittore fu interessato allo studio delle scienze (mineralogia,
botanica, geologia, ottica, anatomia e osteologia) e fu coinvolto in una lunga relazione
sia sentimentale sia intellettuale con Charlotte von Stein, con la quale scambiò
un intenso carteggio, della quale educò il figlio, e alla quale dedicò molte
bellissime poesie. Lavorava intanto alla stesura del Meister e del Faust.
Stanco di Weimar,
Goethe decise un viaggio in Italia sotto falso nome, alla ricerca della
classicità, della grecità e della “naturalezza” italiana (nell’armonia
magica tra natura e cultura). Fu a Roma nel 1786 (scrisse: «Sì, io posso dire che solamente a Roma ho sentito cosa
voglia dire essere un uomo.»), visitò poi la
Sicilia e Palermo (scrisse: «L’Italia senza la Sicilia, non lascia nello
spirito immagine alcuna. È in Sicilia che si trova la chiave di tutto.»), andò
a Napoli salendo anche sul Vesuvio (scrisse: «Napoli
è un paradiso! Si vive in una specie di ebbrezza e di oblio di se stesso!») e in
Trentino, rimanendo in Italia sino al 1788 (ritornerà in Italia per un breve
viaggio a Venezia nel 1790). Le note su queste travolgenti esperienze di
viaggio apparvero nel 1828, ben quarant’anni dopo, con il titolo Viaggio in Italia (Italienische Reise).
Ritornato a Weimar
(ove trovò una fredda accoglienza), lasciò Charlotte von Stein e si legò a Cristiane
Vulpius (una giovane fioraia che sposerà nel 1806 e dalla quale avrà il figlio
August), trovandosi in crisi con la società mondana che frequentava e con l’ambiente
della stessa corte. Nel 1792 seguì il duca di Weimar nella campagna contro la
Francia e visse la sconfitta e la penosa ritirata. Di questo periodo è il forte
sodalizio con Schiller (nell’interesse comune per il Classicismo), che in
qualche modo lo salvò della grave crisi di quegli anni. In quegli anni, però,
questo classicismo in un autore inizialmente romantico non fu capito e – venerato in Europa per
come aveva saputo descrivere lo sviluppo della personalità dell’uomo (centro e
misura di tutte le cose) – Goethe si sentì invece
piuttosto isolato in patria (in effetti, fu proprio lui a scegliere quella sorta
d’isolamento sociale e spirituale).
Nel 1809
pubblicò Le affinità elettive (Die
Wahlverwandtschaften) e si diede alla composizione della sua autobiografia Della mia vita. Poesia e verità (Aus meinem
Leben. Dichtung ung Wahrheit), uscita un anno prima della sua morte nel 1831.
Tra gli anni 1814-1819, incontrò Marianne von Willemer e fu affascinato dalla
poesia orientale; il risultato di queste esperienze fu il volume di poesie Divano occidentale–orientale (Westöstlicher
Divan). Negli
anni 1821-1823, dopo la morte della moglie nel 1816, s’innamorò di nuovo di una
giovanissima donna, Ulrike von Levetzow.
Negli ultimi
anni Goethe scrisse moltissimo e riuscì a portare finalmente a termine il Meister (storia del giovane Wilhelm
Meister, che rinuncia alla realtà della vita per il teatro e che giunge infine a
capire la necessità del singolo di rinunciare alla sua felicità per il bene
comune), che era costituito da una prima parte, intitolata Meister, Gli anni dell’apprendistato (Wilhelm Meisters Lehrjahre), che
fu pubblicata fra il 1795 e il 1796, e da una seconda parte dal titolo Meister, Gli anni di peregrinazione di Wilhelm
Meister (Wilhelm Meisters Wanderjahre) che uscì postuma. Completò anche il Faust, “magnum opus”, la
cui trama verte sul «vendere l’anima al
diavolo» in cambio di potere nel mondo terreno,
al quale lavorò per circa sessant’anni, la cui prima parte era uscita nel 1808, mentre la seconda parte in cinque atti
fu pubblicata postuma l’anno stesso della morte del poeta. Esso ha ispirato compositori
per opere liriche, poemi sinfonici e cantate, autori di teatro, movimenti
poetici, correnti filosofiche e molto altro ancora.
Goethe morì a Weimar il 22 marzo 1832 per un probabile
attacco cardiaco; riposa nella Cripta dei Principi nel Cimitero storico della
piccola cittadina.