lunedì 29 luglio 2013

Andrea Cutri e il suo “Eterno Divenire”


Andrea Cutri

Il chitarrista e compositore Andrea Cutri, di origini per metà sarde (la madre) e per metà friulane (il padre), è nato nel 1979 e vive e lavora a Cabras, Orestano. Giovanissimo talento, ha iniziato a studiare la chitarra da autodidatta all'età di 11 anni e a 13 anni, nel 1992, ha composto Melodia progressiva. Sin da giovane ha suonato la sua chitarra, accompagnandosi a grandi artisti in grossi concerti e vincendo numerosi premi. Il suo primo vero successo risale al 1998, quando ha pubblicato Tempesta e Assalto. Nell'estate del 2002 ha suonato con i Cordas et Cannas e nel 2004 si è esibito in un recital in cui con la sua chitarra impreziosiva una recitazione de “Il piccolo principe”. Sua è la notevole canzone E io verrò un giorno là, presentata da Patty Pravo al Festival di Sanremo del 2009 (arrivata in finale, qualificandosi sesta). Nel 2003 ha inaugurato il suo studio di registrazione “Sinis Records” (che gli permette di autoprodursi).

Vorrei, però, soffermarmi su Eterno Divenire, pubblicata nel 2011, che sembra promettere grandi cose al nostro giovane artista. Ho ascoltato su youtube il tema iniziale del concerto per chitarra e orchestra dell'opera, dal titolo “Metamorfosi delle certezze”, e – pur non essendo un'esperta – l'ho trovato di grande fascino. 

Nell'articolo Il potere dei numeri e della musica per cercare l'eterno divenire: l'opera di Cutri di Cr.S. (vedere: 
http://spettacoli.tiscali.it/articoli/musica/13/07/27/cutri-eterno-divenire.html), 
si scrive che l'opera Eterno Divenire (scritta, musicata e prodotta da Andrea Cutri) si muove tra i seguenti due temi: «La ricerca dell'eternità attraverso la comprensione delle cose e del loro divenire. Il sogno che anima da sempre gli uomini. Quelli che tentano di penetrare questo eterno divenire di ogni manifestazione del mondo attorno a noi attraverso la matematica, e quelli che usano la musica e la poesia per eternare il più totale dei sentimenti umani: l'amore.». Questa narrazione in musica ripropone l'amore tra i poeti inglesi Elizabeth Barrett e Robert Browning che vissero inizialmente una storia sentimentale per via epistolare, nata a metà Ottocento a Londra e conclusasi in Italia, dopo le nozze.  E la poetessa s'innamorò oltre che dell'Italia, anche della causa indipendentista italiana, passione che durò sino alla sua morte nel 1861. La cosa straordinaria è che adesso l'opera di Andrea Cutri si trova al vaglio di Baz Luhrmann, talentuoso sceneggiatore e regista di Moulin Rouge, che sta valutando la possibilità di metterla in scena.

Nella sua intervista Andrea Cutri accenna alla base matematico–filosofica della narrazione e al «tema parallelo a quello della storia d'amore, cioè la ricerca del codice su cui si fonda ogni cosa collegato a sua volta con la struttura musicale», e riporta come nel disco (cofanetto più libretto) suonino grandi musicisti come Dave Weckl (Chick Corea) Tony Levin (Peter Gabriel, King Crimson) e Gavin Harrison (batterista di Incognito, Claudio Baglioni, Franco Battiato, Porcupine Tree). Di artisti ne ha coinvolti più di 50, senza poi grandi difficoltà per quelli più famosi (e senza parlare di soldi): «Grandi musicisti con la passione dei ragazzini innamorati della musica. […] Oltre a guadagnare in suono e qualità musicale con questi super professionisti si risparmia un sacco di tempo. Ma alle registrazioni hanno collaborato anche molti ottimi musicisti italiani, alcuni dei quali provenienti dalla mia Sardegna.».

Cutri riporta la sua intenzione di mettere in scena l'opera: «Ora stiamo lavorando sulla messa in scena, la cosa importante è valutare quanto è costoso realizzare le idee. Alcune delle quali sono strabilianti». Cutri è riuscito a contattare Baz Luhrmann nel modo seguente: «L'autrice dei testi in versione inglese, Marisa Raoul, è stata intervistata da una giornalista in Australia e ha parlato del progetto. Caso ha voluto che questa giornalista sia la moglie dello sceneggiatore Luhrmann, nonché la costumista dei suoi film. Il regista aveva già l'idea di produrre un film musicale a tema romantico ambientato nell'Ottocento ed è rimasto colpito dalla mia opera. Anche perché ne ha scoperto il contenuto matematico–filosofico […].».

Questa notizia mi ha entusiasmato, perché ho pubblicato il libro Se devi amarmi… amami per amore Elizabeth Barrett e Robert Browning: Biografia di un amore (Aracne editrice, Roma, 2012) col desiderio di far conoscere in Italia i due quasi sconosciuti poeti e il loro amore immortale. Tra biografia e selezione antologica, il mio saggio racconta (attraverso le poesie e le lettere) la vita e l'amore di questi due grandi poeti vittoriani Elizabeth Barrett e Robert Bro­wning, nati per amarsi in fusione di anima e corpo (affettività e sensualità), adatti a condividere sogni, sfide morali e ideali artistici. Appassionante come un romanzo, il saggio è arricchito con ritratti e foto di luoghi e persone (i grandi autori che amiamo) che rendono familiare il mondo vittoriano, suggerendo ambienti e atmosfere. In questi anni cadono, tra l'altro, i centocinquanta anni dalla morte di Elizabeth Barrett (29 giugno 1861) e quelli dell'unità di Italia: e i due poeti facevano parte di un gruppo di scrittori stranieri che vivevano in Italia e che solidarizzavano col Risorgimento. Elizabeth si sentiva «italiana nel cuore», chiamava il figlio nato in Italia «il mio giovane fiorentino» e, immedesimandosi con il popolo italiano, difese il Risorgimento con i poemetti Le finestre di casa Guidi e Poesie davanti al Congresso, in mezzo alla contrarietà dei suoi stessi compatrioti. Con toni d'indignazione e d'invettiva, infatti, la Barrett sollecitava i suoi connazionali a prendersi a cuore i gravi problemi dell'Italia: questi atteggiamenti furono considerati atipici e indecorosi per una donna, e destarono malevoli giudizi d'irragionevolezza e inopportunità, alienandole la simpatia degli Inglesi, che le attribuirono ingiustamente sentimenti anti–britannici. In effetti, le due opere non ebbero molto successo e contribuirono a diminuire la sua popolarità in Inghilterra.

La Barrett purtroppo non ebbe il piacere di sapere che il 19 novembre del 1865 la Camera approvava la legge che spostava la capitale d'Italia da Torino alla sua amatissima Firenze, in mezzo alle vibrate proteste dei torinesi.

giovedì 25 luglio 2013

Francesco Petrarca: Laura, unico amore in vita e in morte


Francesco Petrarca e Laura

Trascrivo per voi la più nota e la più bella delle ventinove canzoni che compongono le Rime del Petrarca.

Chiare, fresche, e dolci acque

Chiare, fresche, e dolci acque,
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co l’angelico seno;
aere sacro, sereno,
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

            S’egli è pur mio destino,
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche gratia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda.
La morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo:
ché lo spirito lasso
non porìa mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l’ossa.

            Tempo verrà ancor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ’v’ella mi scòrse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta
cercandomi; et, o pièta!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impètre,
e faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo.
Qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde;
qual con un vago errore
girando parea dir: – Qui regna Amore –.

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
– Costei per fermo nacque in paradiso! –
Così carco d’oblio
il divin portamento,
e ’l volto, e le parole, e ’l dolce riso
m’aveano, e sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
– Qui come venn’io, o quando? –
credendo d’esser in cielo, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
quest’erba sì, ch’altrove non ò pace.

            Se tu avessi ornamenti quant’ài voglia (il poeta si riferisce alla canzone),
poresti arditamente
uscir del bosco, e gir in fra la gente.
(Sonetto CXXVI, da “Rime in vita di Madonna Laura”, nel “Canzoniere”)

In un momento di malinconia, il poeta si reca sulle rive del fiume ove altre volte aveva avuto modo d’incontrare e ammirare la sua amata. Laura non c’è fisicamente ma la sua presenza appare riflettersi nelle forme della natura: tutti i luoghi e le cose sembrano aver conservato il suo alone, sembrano esser pieni delle sue memorie e parlare di lei. E immagina di poter morire in quei luoghi che hanno visto la bellezza della donna amata; il ricordo di lei, così come l’aveva veduta in riva al fiume, è però talmente forte che si sente consolato e a questa dolce consolazione amorosa s’abbandona completamente, dimenticando tutto – perché si trova là e come vi è giunto – e credendo di essere stato rapito in cielo. È la sublime forza dell’amore che tutti conosciamo e che in assenza dell’amato può nutrirsi anche soltanto di sogni e ricordi!

Per Petrarca, l’Amore è una forza travolgente che «saetta… vola... minaccia… percote... ruba per forza… invola», dalle «instabili rote», dalle «speranze dubbiose» e dal «dolore certo»; l’amore agisce nelle ossa come «fuoco coperto» e vive nelle vene come «occulta piaga». Scrive Francesco: «Amor mi sprona in un tempo et affrena / assecura et spaventa, arde et agghiaccia, / gradisce et sdegna, a sé mi chiama et scaccia, / or mi tene in speranza et or in pena, / or alto or basso il meo cor lasso mena: / onde ’l vago desir perde la traccia / e ’l suo sommo piacer par che li spiaccia, / d’error sì novo la mia mente è piena […]» (s. CLXXVIII del “Canzoniere”). A proposito della schiavitù creata dall’amore–passione, si può osservare qualcosa di simile nel sonetto a Cino di Dante Alighieri: «Io sono stato con Amore insieme […] / e so com’egli affrena e come sprona / e come sotto lui si ride e geme: / […] / Ben può con nuovi spron punger lo fianco, / e qual che sia ’l piacer ch’ora n’addestra, / seguitar si convien, se l’altro è stanco.» (s. CXI, dalle “Rime”).

Su Petrarca e sul significato del suo amore per Laura, in una nota alla sua traduzione dei sonetti di Skakespeare, Giuseppe Ungaretti (1888–1970) ha scritto: «S’indugia l’amore del Petrarca a riparare le rovine minuto per minuto, quasi insensibile alla fuga del tempo, e dando al tempo gradualmente spazio d’infinita profondità storica, suscitando una forma, forma terrena, bellezza nella incorruttibilità delle idee: Laura. Per lenta variazione di luce procede il Petrarca, sino a quando l’invecchiamento apertogli un baratro ai piedi, non avrà la luce fattasi sfolgorante e spaventosa, svelato soprannaturali l’amore, la bellezza, l’immortalità: Laura.».

A proposito di Petrarca e di Laura, desidero anche ricordare L’amore in sé di Marco Santagata  (Guanda, Parma, 2006), nel quale si racconta di un anziano professore di filologia, cinico e amareggiato dal dolore represso di avere un figlio down. Nella sua «angoscia di vecchio stanco e disperato», che sa «quanto sia duro vivere se si è morti dentro», ha un cedimento improvviso e s’identifica con un sonetto di Petrarca, ritrovando la nostalgia per un rimosso amore del passato (per una figura femminile del ricordo) e mescolando il passato col presente. Tiene all’università di Ginevra un corso di lezioni su Petrarca e – proprio durante una di queste lezioni – mentre legge e commenta un sonetto e mentre l’aula risuona degli evocativi versi dedicati a un amore perduto irrimediabilmente (quello di Petrarca per Laura morta), viene inondato all’improvviso dal ricordo di Bubi. L’italianista incorre allora in un lapsus freudiano che incuriosisce i suoi allievi: al posto del nome di Laura usa quello di Bubi, il primo amore infelice e perduto, forse sopito ma mai dimenticato. Bubi era un’esile adolescente, bionda e bellissima, ricca e irraggiungibile, che a lui (giovanissimo quindicenne della pianura emiliana) era apparsa con la sua carica di grazia e tenerezza in tutto simile a una donna del “dolce Stil Novo”: seducente e inafferrabile, alla stessa maniera enigmatica della Laura di Petrarca. Il disincantato professore si ritrova allora a interpretare la lirica di Petrarca alla luce della propria esistenza vile e rassegnata. E nei due piani del romanzo, in modo assolutamente inaspettato e imprevedibile, presente e passato, Laura e Bubi, si sovrappongono e s’intrecciano nel medesimo incanto poetico. Su questa scia, desidero ricordare i primi struggenti e bellissimi versi del sonetto implicato nel lapsus La vita fugge e non si arresta un’ora (che fa parte delle “Rime in morte di Madonna Laura”): «La vita fugge, e non s’arresta un’ora, / e la morte vien dietro a gran giornate, / e le cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora; / e il rimembrare e l’aspettare m’accora / […]» (s. CCLXXII).

Pur essendo stato quasi contemporaneo di Dante, Petrarca è vissuto e si è mosso in un ambiente più moderno, rinunciando al dogmatismo medievale e preferendo l’interesse per il proprio io profondo, attento al mondo esterno. In questo senso, si può parlare di umanesimo del poeta, poiché l’uomo – con la sua spiritualità e la sua moralità – costituisce l’unico oggetto di conoscenza degno d’attenzione. Figlio di un notaio fiorentino, che aveva cognome Petracco, nacque ad Arezzo il 20 luglio del 1304 e si attribuì il nome “Petrarca” perché lo considerava un’elegante trasposizione latina del suo patronimico. Aveva seguito ad Avignone il padre esule da Firenze, travolto dalla stessa tragedia politica di Dante (del quale era amico), provocata dalla sconfitta dei Bianchi. Dopo aver studiato la grammatica e la retorica, s’era dedicato agli studi giuridici che in seguito rinnegò dicendo: «Nulla può ben riuscire a dispetto del naturale. Io nacqui vago non del foro ma della solitudine.». Si votò poi completamente agli studi umanistici e, ancora giovane, ebbe grandi riconoscimenti e fama diffusa per il successo del poema in latino Africa. Viaggiò moltissimo per l’Europa (anche per motivi diplomatici), abitando per lunghi anni ad Avignone. Uomo molto religioso, visse al seguito del cardinale Giovanni Colonna, prendendo anche gli Ordini minori per avere quei miglioramenti di carriera e quei benefici ecclesiastici che gli consentirono una vita discretamente agiata. Non fu attivo politicamente come Dante (che ebbe modo di conoscere personalmente) e fu portato piuttosto alla meditazione spirituale e all’introspezione in ritiri di campagna lontani dalla confusione delle città: «né lieto troppo, né mesto, assorto e notte e giorno in pace dolcissima […] di servi povero, di libri ricco». Diceva di sé: «Non io dei civili strepiti mi diletto, non delle leggi e delle armi, ma alla solitudine e all’ozio son nato». Malinconico e riflessivo, era anche inquieto e consapevole della caducità delle cose del mondo. Ambiva a una serena stabilità, al dominio delle passioni, all’educazione dello spirito e a un forte controllo etico, e considerava l’uomo come l’unico artefice del suo destino e della sua felicità. Per questi motivi, volle dare di sé un’immagine di perfezione assoluta, così da servire come modello d’imitazione. Nonostante tutto, però, era ambizioso dal punto di vista mondano, assetato di nuove esperienze e desideroso di successo.

Credeva che il latino fosse la lingua nobile; scrisse pertanto in latino moltissime opere di cultura filologica, tra le quali il poema epico già ricordato al quale aveva affidato tutte le sue aspettative di gloria imperitura. Il 6 Aprile del 1327 nella Chiesa d’Avignone, Petrarca conobbe Laura e l’amò sino alla sua morte (avvenuta nel 1348 a causa della peste) e per altri dieci anni dopo la sua scomparsa; scriveva: «Voglia mi sprona, Amor mi guida et scorge, / Piacer mi tira, Usanza mi trasporta, / Speranza mi lusinga et riconforta / et la man destra al cor già stanco porge: / e ’l misero la prende, et non s’accorge / di nostra cieca et disleale scorta: / regnano i sensi, et la ragione è morta; / de l’un vago desio l’altro risorge. / […] / Mille trecento ventisette, a punto / su l’ora prima, il dì sesto d’aprile, / nel laberinto intrai, nè veggio ond’esca.» (s. CCXI dal “Canzoniere”). Si trattava probabilmente di Laura de Noves, andata sposa a Ugo de Sade: l’amore fu reale ma quasi certamente non ricambiato e divenne il nucleo centrale della poetica del poeta. Come Beatrice, piuttosto che una donna, Laura è un ideale femminile vero e proprio, forse soltanto il pretesto per esprimere il proprio mondo sentimentale e la propria interiorità. In effetti, non ha nessuna importanza se Laura abbia ricambiato o no questo sentimento o se sia stata soltanto un fantasma d’amore che viveva la sua stupenda vita esclusivamente nei versi di Petrarca. Quanti di noi non hanno amato spesso null’altro che un sogno, null’altro che l’immagine di un istante? Scriveva di lui l’inquieto poeta astigiano Vittorio Alfieri (1749–1803), anch’egli ispirato dall’amore (quello per la contessa d’Albany): «gentil d’amore mastro profondo». E il poeta inglese George Byron, meglio noto come Lord Byron (1788–1824), ebbe il modo di dire «Se Laura fosse stata la moglie del Petrarca, pensate | che lui avrebbe scritto sonetti tutta la vita?». Com’è vero purtroppo: la quotidianità e l’abitudine dissolvono qualsiasi amore travolgente!

Nel 1341 Francesco fu incoronato poeta sul Campidoglio, ricevendo il riconoscimento ufficiale della laurea poetica e raggiungendo quel che era stato il grande scopo della sua vita. Fu incline alle relazioni amorose passeggere: da due diversi rapporti sentimentali ebbe i figli Giovanni (1337) e Francesca (1342), che gli restò vicina con la sua famiglia per tutta la vita. Durante gli ultimi quattro anni della sua esistenza, il poeta visse in una residenza campestre ad Arquà sui colli Euganei, in una «modesta e graziosa villetta» con un uliveto e una vigna, che gli era stata regalata dal mecenate padovano Francesco di Carrara. Nonostante il prevalente interesse per il latino, scrisse in volgare il Trionfo dell’Eternità. Morì improvvisamente il 19 luglio del 1374 per una sincope e venne sepolto in Arquà, secondo il suo desiderio.

Pur considerando il latino la lingua colta e nobile e pur ostentando uno scarso interesse per i problemi del volgare, Petrarca è diventato grande cantando l’amore per Laura in quelle Rime, scritte in volgare (che in fondo al cuore disprezzava), alle quali lungo tutto il corso della sua vita aveva dedicato novità di sperimentazione, cura stilistica e attento lavoro di limatura. Si trattava di rime sparse e di frammenti lirici, che alla maniera di Catullo chiamava “nugae” (letteralmente “inezie”) e che aveva cercato di organizzare nel “Canzoniere” nelle due sezioni in vita e in morte di Madonna Laura, separate dalla canzone Io vo pensando, et nel penser m’assale: «I’ vo pensando, et nel penser m’assale / una pietà sì forte di me stesso, / che mi conduce spesso / ad altro lagrimar ch’i’ non soleva: / ché, vedendo ogni giorno il fin più presso, / mille fïate ò chieste a Dio quell’ale / co le quai del mortale / carcer nostro intelletto al ciel si leva. / […]». Talora alterò la cronologia temporale in modo che i sonetti venissero a costituire quasi un diario personale, in grado di esprimere pienamente il passaggio da un futile amore terreno alla catarsi cristiana di un’anima, tesa come un arco tra realtà e ideale. Si conoscono due edizioni dell’opera, entrambe approvate dall’autore: una prima che comprendeva 215 composizioni liriche, e una seconda che ne conteneva invece 366.

Combattuto tra sogno e realtà, tra solitudine e mondanità, tra amor terreno ed estasi divina, tra entusiasmo per i classici e istanze cristiane, con la sua problematicità esistenziale, Petrarca riuscì a superare l’artificiosità del dolce “Stil Novo” e a creare le nuove basi per una poesia più moderna. Ebbe una fortuna poetica immensa esercitando un fascino straordinario: le sue poesie d’amore sono state imitate sino ai giorni nostri, creando quella imperitura corrente poetica chiamata “Petrarchismo”.

P.S. Passo a ricordare adesso uno spettacolo teatrale, un Recital in concerto, presentato al Festival del Teatro Medievale di Anagni (Frosinone) nell’agosto 2009 con Maria Rosaria Omaggio, dal titolo “Laura o Beatrice? Il mistero dell’amore”, nel quale le liriche del Canzoniere venivano messe a confronto con i versi della Divina Commedia, con i sonetti della Vita Nova e con alcune riflessioni del Convivio (direzione artistica di Giacomo Zito). Nel recital i versi bellissimi si alternavano con le stupende musiche di Albinoni, Gounod, Chopin, Bach, Schumann e Grieg, eseguite alla fisarmonica o al flauto dal Maestro Andrea Pelusi. Ha spiegato Maria Rosaria Omaggio: «Alle radici della cultura europea, due figure femminili, Laura e Beatrice, esprimono aspetti diversi del mistero dell’amore umano. C’è chi, in modo forse troppo semplicistico, le ha contrapposte: Laura è l’amore umano, Beatrice è l’amore divino. In realtà non sono figure antitetiche, ma diverse poiché diverse sono le esperienze umane e poetiche di Petrarca e Dante. Laura è la donna realmente sognata e continuamente vagheggiata. Beatrice è rivelazione dell’amore eterno che si è fatto perfezione di vita umana e anelito divino.» (vedere: www.adnkronos.com).

domenica 14 luglio 2013

Jalâl âlDîn Rumî e l’ineffabile trascendenza dell’amore mistico


Jalâl âlDîn Rumî in meditazione

Jalâl âlDîn Rumî e l’ineffabile trascendenza dell’amore mistico

Gialal al–Din (in arabo Jalâl âd Dîn ar Rumî), detto anche Mawlana cioè “nostro Maestro”, nacque a Balkh in Persia – oggi Afghanistan – nel 1207 ed è stato uno dei più grandi poeti persiani, influenzando il pensiero mistico e la letteratura intera. La “Mistica” è quella particolare esperienza spirituale che prevede la conoscenza profonda del divino e la sua contemplazione, giungendo così al raggiungimento della più alta perfezione dell’anima umana; e “mistica” è quella letteratura che narra le esperienze di questo tipo. Il motto di Gialal era: «Mostrati come sei, e sii come ti mostri».

Il Mathnawî (da Jalâl âlDîn Rumî Mathnawî, edizione italiana a cura di Gabriele Mandel Khân, Bompiani, 2006) è un testo straordinario, esoterico e simbolico, forse di non immediata comprensione ma di grande forza espressiva, di questo che è uno dei più grandi poeti mistici e che di sé diceva: «O uomo! Viaggia da te stesso in te stesso.». Nei suoi versi ricchi di estatico ardore e di astratta semplicità, l’amore è considerato la religione più alta, con la quale si trova il rimedio a qualsiasi male e dalla quale nasce quella «sete su sete» che fa raggiungere l’Essere supremo.

In un brano del Libro I del poema (vv. 2656-2660), parlando dell’amata, Gialal al-Din scriveva: «L’uomo disse: “Adesso ho smesso di oppormi a te: hai tu l’autorità: estrai la spada dal fodero. / “Qualsiasi cosa tu ordini di fare, obbedirò, non starò a considerare neppure se l’ordine è buono o cattivo. / “Diventerò inesistente nella tua esistenza, poiché sono il tuo innamorato: l’amore rende cieco e sordo.”». Questo concetto della resa dell’innamorato all’amore (che è poi una metafora dell’amore divino) rientra perfettamente nell’insegnamento di Maometto (Mecca, 570–632), il fondatore dell’Islamismo, che è una religione monoteista basata sulla fede nell’unico Dio Allah; e “Islam” significa per l’appunto “resa”.

Il Libro III è pieno di parabole e allegorie, ed è dedicato a quell’amato che – pur temendo di tornare – è costretto dall’amore e ritorna poiché la vita poco importa agli innamorati sicché essi vi rinunciano per giungere all’amato: «Dopo dieci anni la nostalgia lo rese incapace di sopportare i giorni di separazione […] (v. 3690) / […] “Non darmi consigli poiché i miei lacci sono fortissimi. / “I miei lacci son più forti dei tuoi consigli (vv. 3830-31) / […] Ho un Amato il cui amore mi brucia le viscere; calpesti i miei occhi, se lo vuole. (v. 3841) / […] Ma la candela dell’Amore non è come una candela qualsiasi: è Luce su Luce su Luce. / è l’opposto delle candele ardenti: sembra fuoco, ma in effetti è tutta dolcezza. (vv. 3921-22) / […] Dagli alberi dell’amore escono ali che portano in cielo: “La sua radice è salda e i rami sono nel cielo” / […] Senz’altro c’è una finestra tra cuore e cuore: non sono separati e lontani come due corpi; / l’argilla di due lampade non è unita, ma la loro luce si fonde. / In verità nessun amante cerca l’unione se il suo amato non la cerca, / ma l’amore degli innamorati rende il corpo simile alla corda di un arco, mentre l’amore degli amati lo rende bello e florido. / Quando il lampo dell’amore per l’amato ha colpito questo cuore, sappi che in quel cuore c’è amore. / Quando nel tuo cuore l’amore per Dio raddoppia, sappi che senza alcun dubbio Dio ha amore per te. (vv. 4391-9)». Gialal continua a insistere sul fatto che l’Amato attira l’innamorato nel momento in cui egli non pensa a ciò né lo sa né lo spera; e continua inconsapevole nella sua ricerca e alla fine chi cerca trova: «[…] Quando più grande è lo sforzo di nasconderlo, tanto più l’Amore alza la testa come uno stendardo. Mi dice: “Guarda son qui.” (v. 4737)».

In un brano del Libro V, una innamorata chiede all’amato chi ami di più, se lei o se stesso, e l’innamorato risponde di essere morto a se stesso e di vivere soltanto grazie a lei; le confessa di non esistere più per ciò che riguarda se stesso o i suoi attributi ma soltanto grazie a lei; e sostiene ancora di avere dimenticato la propria consapevolezza ed – essendo diventato consapevole grazie alla sua consapevolezza – di avere perduto ogni concetto del potere e di essere diventato potente grazie alla potenza di lei. Egli ama se stesso perché ama lei, e se ama lei ama se stesso. Riporto alcuni versi di grande forza emotiva: «Per metterlo alla prova una innamorata chiese al suo innamorato durante la colazione del mattino: “tale figlio del tale / mi chiedo se tu ami di più me stessa o te stesso. Dimmi la verità.” / Disse: “Sono talmente annientato in te, che sono pieno di te dalla testa ai piedi. / “Della mia esistenza rimane solamente il mio nome; nel mio essere ci sei solamente tu, oh tu i cui desideri sono esauditi. / Io sono stato annientato come una goccia d’aceto in quell’oceano di miele che tu sei.” / Come la pietra, che diventa rubino puro, egli è pieno delle qualità del Sole. / In lui non rimane più nulla della qualità d’una pietra: egli è pieno delle qualità del Sole. (vv. 2020-6)».

La vita di Gialal al–Din è più appassionante di qualsiasi storia narrata ne Le mille e una notte ed è tutta improntata a sentimenti d’amore. Figlio di un sufi mistico molto noto (scrittore, teologo, predicatore e gran maestro) e di una donna turca di stirpe reale, a causa della minaccia dei mongoli, dovette abbandonare esule con la famiglia la città natia Balkh (che fu poi completamente distrutta) per andare a Nishapur, dopo aver visitato diverse località dell’altipiano iraniano. In seguito a un pellegrinaggio alla Mecca e a molto altro peregrinare ancora, raggiunse l’Anatolia che al tempo era una regione prospera e tranquilla (Rum; da qui il suo soprannome Rumî). Dopo la morte della madre, Gialal al-Din si stabilì definitivamente a Konya insieme al padre – il quale vi aprì una madrasa reale (una sorta di scuola religiosa) che diresse sino alla sua morte avvenuta nel 1231 – e si sposò due volte: la prima con la figlia di un maestro sufi di Samarcanda e la seconda con una cristiana convertita all’Islam, generando quattro figli. In seguito alla morte del padre, gli subentrò mostrando notevoli capacità spirituali. Nel 1244 Gialal al–Din ebbe modo d’incontrare per le strade di Konya un uomo benedetto (un “pazzo sacro” di grande fascino), Shams al–Din Muhammad Tabrîz (da lui soprannominato “Sole della religione”), che lo introdusse ai misteri della maestà e della bellezza divina. Si narra che, dopo il loro primo incontro e la prima discussione mistica, Rumî (ch’era a cavallo di una mula) sia svenuto e una volta rinvenuto sia rientrato a piedi nella madrasa con Shams tenendolo per mano; rimasero insieme per quaranta giorni senza fare entrare nessuno. Per mesi i due mistici vissero insieme in preda a «un’illuminazione interiore», amandosi così teneramente che Gialal al–Din dimenticò completamente l’insegnamento e la famiglia. Questo rapporto esclusivo creò nel suo “entourage” uno scandalo tale che nel 1245 Shams al–Din fu costretto con gravi minacce di morte ad abbandonare la città. Gialal al–Din n’ebbe il cuore spezzato; con la complicità forse di un figlio indignato da questa stretta relazione amorosa, gli allievi fecero sparire Shams al–Din al suo ritorno a Konja, probabilmente uccidendolo e buttandone il cadavere in un pozzo. è possibile che la storia sia soltanto la metafora di un’idea insita nel sufismo: quello del mistero della verità nel pozzo e della necessità della sua ricerca. Questa vicenda d’amore e morte illuminò Rumî, trasformandolo in un grandissimo poeta. Le sue poesie mistiche, ch’ebbero il potere d’ispirare anche Goethe, erano costituite da circa 30.000 versi ed erano la reale trasposizione della sua esperienza sentimentale nel racconto di tutti i vari stadi di quest’amore «raggiante come la luna», nel quale s’identificava a tal punto con l’amato da firmare molte delle poesie aggiungendo il nome di Shams: esse sono state raccolte in Dîvân–i Shams–i Tabrîz (Canzoniere di Shams–i Tabrîz).

In queste sue Poesie mistiche (da: Gialal ad–Din Rumi, Poesie mistiche, introduzione, traduzione, antologia critica e note di Alessandro Bausani, Rizzoli, Milano 1980), Gialal al–Din scrive versi strepitosi d’intenso amore; la “Poesia 18 (L’Amore)” così recita: «Quell’anima che non ha per costume l’Amore, / meglio è che non sia, ché onta è l’essere suo! / Inébriati dunque d’amore, ché Amore è tutto quello che esiste, / senza la veste d’Amore non si va alla corte dell’Amato. / Se chiedono: “Amore cos’è?” rispondi: “Rinuncia al volere: / chi alla Libertà non sfugge non è libero mai!”. / L’Amante è un Imperatore e i due mondi stan gettati ai suoi piedi: / il Re non riguarda nemmeno a quel che gli gettano ai piedi. / L’Amore e l’Amante vivono davvero in eterno: / non attaccare il cuore a cose riflesse e prestate! / […]». Nella “Poesia 20 (L’Amante perfetto)”, invece, con vivezza di particolari, il poeta identifica le qualità dell’amore che più sanno accendere la passione: «Ho bisogno d’un amante che, ogni qual volta si levi, / produca finimondi di fuoco da ogni parte del mondo! / Voglio un cuore come inferno che soffochi il fuoco d’inferno / sconvolga duecento mari e non rifugga dall’onde! / Un Amante che avvolga i cieli come lini attorno alla mano / […] / e, quando, dal settimo mare si volgerà ai monti Qâf misteriosi / da quell’oceano lontano spanda perle in seno alla polvere!».

Pur trasmettendo esperienze mistiche con linguaggio umano, l’espressione della poesia di Gialal al–Din è fresca e immediata; sogni irreali e immagini reali della vita quotidiana si mescolano in un intreccio ricco di fascino e suggestione. Si racconta che molti suoi versi siano stati scritti mentre danzava in preda all’estasi, favorita dalla dolce melodia del flauto o dal martellamento dei tamburi o anche soltanto dal dolce rumore costituito dallo scorrere dell’acqua di un fiume. Il mistico trovava ispirazione continua a contatto di quella natura che amava tantissimo, condividendo il suo amore con fiori e uccelli. In seguito Gialal al–Din visse un secondo rapimento amoroso per un umile artigiano orafo, che considerava come una diversa manifestazione di Shams al–Din e che nuovamente gl’ispirò versi di notevole altezza lirica. Un altro grande evento nella vita di Gialala al–Din fu l’incontro a Damasco con Ibn al–Arabi, grande mistico islamico e teoreta dell’“unità dell’essere”. Rumî ebbe modo così di amalgamare l’inebriazione estatica di Shams–i Tabrîz con i ragionamenti visionari di Ibn al–Arabi («La realtà terrena non è che un riflesso della realtà simbolica che è la vera realtà.»). Si legò, quindi, di un forte amore spirituale per Celebi Husain al–Din Hasan, sotto la cui influenza scrisse il poema epico–didattico indicato in persiano Mathnawî e noto come Masnavî–yi Manavî (Coppie Spirituali), considerato da alcuni islamici come un vero e proprio “Corano in versi”, perché in grado di trasmettere un forte messaggio etico–filosofico di tolleranza e d’amore universale per l’uomo e per l’essere divino. Si trattava di un’ampia composizione costituita da sei libri o quaderni (in arabo “daftar”) – ciascuno preceduto da una prefazione in prosa araba – e da circa 51.000 “strofe rimate” (versi distici) che contenevano aneddoti, favole, proverbi, allegorie e strane storie fantastiche. Un altro libro dal titolo arabo Fihi ma fihi (C’è quel che c’è) raccoglieva interessanti dichiarazioni in prosa del maestro. La grandiosa opera avrebbe dovuto essere il «disvelatore dei misteri per giungere alla Verità… il rimedio per i cuori malati e il consolatore dei dolori... una preghiera che include tutte le categorie del creato…». E Gialal al–Din andava per casa e per le strade, recitando questo suo poema che conteneva l’esperienza del divino amore, accompagnato dal suo ispiratore Husain al–Din che considerava come una manifestazione di Shams al–Din. In conclusione, si può dire che Gialal al–Din abbia amato, in realtà, sempre e soltanto la stessa persona, luce e sole della sua vita. Dopo aver concluso questa composizione, Rumî visse ancora alcuni anni e spirò in dolce serenità nel 1273, salutando familiari e allievi. Fu sostituito alla guida dell’ordine, prima da Husain al–Din e successivamente dal figlio Sultan Walad, che ci ha fatto conoscere molto della vita del padre raccontandoci le sue idee poetiche, i suoi detti e pensieri, le sue lettere e le sue diverse predicazioni. Dopo la sua morte, a Rumî in Konya fu innalzata la “Cupola verde”, un mausoleo divenuto oggi un museo, meta di continui pellegrinaggi. Gialal volle che sul suo monumento sepolcrale fosse scritto: «[…] Dopo la mia morte non cercate la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che sanno.».

Francesco Alberoni, nel saggio Innamoramento e Amore (Garzanti, Milano 1979) ricollega l’amore al misticismo e così scrive: «L’amore diventa il luogo interiore della rigenerazione, un’isola sottratta alla contingenza, il giardino delle rose in mezzo al deserto, dove l’anima sazia la sua sete e può tornare nel mondo. Tutto questo è assai vicino al misticismo. […] Mawlawi Jalal ad Din Rumi scrive il più grande poema mistico dell’Islam, il “Mathnawi”, e la raccolta lirica del “Diwan”, dopo che Shams–e Tabrizi, un uomo da lui molto amato, scompare o muore. Nel Mathnawi egli non parla mai di quest’uomo ma solo di Dio, però in molte parti del poema si ha l’impressione di un amore così concreto e così struggente da confondere le figure dell’Amico umano e dell’Amore divino. Il Diwan è invece dedicato proprio a Shams–e Tabrizi, e qui è attraverso l’Amico amato che egli passa a parlare di Dio. L’amore mistico resta innamoramento perché con l’Amico o l’Amato divino non è possibile alcun patto di reciprocità. Uno può solo amare, l’altro può solo essere amato e la sua risposta – che non può essere garantita – è sempre e comunque “grazia”». Per Alberoni, quest’asimmetria totale e questa insuperabile distanza rendono l’amore mistico una rivelazione dell’essere come amore, rispetto al quale tutto il resto è contingente. E questa distanza nell’amore mistico è quella che fa sì che una continua sofferenza si trasformi miracolosamente in gioia: «L’amore mistico ci dimostra con chiarezza il fatto che lo stato d’innamoramento non dipende in alcun modo dalla proprietà dell’altro, esso è puramente e semplicemente un nostro modo di vedere (pensare, sentire, percepire, immaginare ecc.), cioè un sistema categoriale tutto interno alla struttura della nostra mente. Noi non vediamo le cose come sono, ma come le facciamo. L’amore mistico costruisce il suo oggetto a partire dalle categorie dello stato nascente e non potendo prendere una persona esistente (da trasfigurare nella immaginazione) costruisce il suo oggetto puro e ideale.». Ma la cultura contemporanea sostiene che ciò non sarebbe vivere; bisogna riconoscere, però, che nel corso dei millenni «il misticismo è stato una forma di vita assai importante ed assai intensa». Infatti, per colui che lo ama, l’oggetto non cessa di essere reale: «D’altronde anche nell’innamoramento è “reale” la persona amata? Anche qui l’amato è il prodotto dell’immaginario. Solo di un immaginario che si fa progetto, che vuol modificare la realtà per realizzarsi, incarnarsi nel mondo.».

Gialal al–Din costituisce il rappresentante emblematico di quella forma particolare di misticismo che ha formato la base del “Sufismo” storico, cioè di quella confraternita religiosa sufi dei “dervisci rotanti” (mevlevi), i dervisci di nostro Signore. Dopo la sua morte, i suoi discepoli si sono organizzati nell’ordine Mawlaniano, caratterizzato da una tipica danza simbolica e rituale di tipo mistico, in grado di indurre uno stato d’ipnosi psicofisiologica chiamata “trance”. Per celebrare la morte di Rûmî, a Konya nella seconda settimana di dicembre i Mevlevi danzano un Samâ rituale (vedere Gabriele Mandel, San Francesco e Rumi, http://www.puntosufi.it/temi32.htm). Si tratta di una danza fortemente spirituale, espressione stessa della realtà (divina e fenomenica) in cui, per esistere, tutto deve ruotare vorticosamente come atomi e pianeti, e come lo stesso pensiero. Il Samâ è «un vero e proprio rito religioso», diviso in sette fasi, un simbolo alto di quell’ascesa spirituale, di quel viaggio mistico dall’essere umano a Dio (nel quale l’essere si dissolve) e del successivo ritorno sulla terra. A questa danza partecipano musici e cantanti, il Maestro e i danzatori. Alcuni gruppi di danzatori (non sufi) hanno imparato una forma ridotta, lontana dalla tradizione codificata, di questa danza e di questa musica, rappresentandola nei teatri europei e italiani. Scrive Gabriele Mandel: «Il frate Francesco, grande mistico della cristianità, e il sufi Rûmî, grande mistico dell’Îslâm sono molto vicini a Dio, e pertanto molto vicini fra di loro. Hanno numerosi punti di contatto per ciò che riguarda la loro vita terrena, e molti punti di contatto per ciò che riguarda la loro visione del divino.».

Per concludere, Saffo e Rumî sono la prova più lampante che il grande amore trascende la diversità tra i sessi e l’orientamento sessuale. Se questo era possibile già nel passato lontano, lo è maggiormente oggi, perché – grazie a profondi cambiamenti di cultura e di costume – i sentimenti d’amore sono vissuti sempre più in piena libertà.